Il prezzo delle cure ortodontiche. Il “marketing cartesiano” del passato

Tanti anni fa, seguivo i dentisti anche per quello che con molta circospezione si chiamava “marketing”. Lo facevo a modo mio, “da ragioniere”, cioè evitando di proporre teorie astruse e campate per aria, basate sulla sola pubblicità, come si vede fare oggi dal 99% di chi si offre ai dentisti, dunque cercando di offrire elementi razionali per far capire cosa, come, quando agire per ottenere risultati.

Questo articolo, del 1995, lo pubblicai in un momento in cui seguivo alcuni studi di sola ortodonzia, i quali, sentendosi “forti” della loro specializzazione desideravano evidenziare la qualità delle loro prestazioni utilizzando il prezzo elevato. La loro richiesta era di dargli aiuto nel creare metodi affinché se, poniamo, il prezzo di un trattamento nello studio del dentista “generico”, quello dove si recava “l’ortodontista con la valigia” fosse stato 1, il loro prezzo, doveva essere almeno 7,5. Ci riuscimmo.

L’articolo testimonia la ricerca tecnica che fu fatta per poi “passare all’azione” in modo razionale.

Oggi, ripesco questo reperto archeologico non per affermare che chi lo studierà riuscirà di sicuro a imparare come si fa a chiedere e ottenere prezzi molto più alti dei colleghi, servirebbero per questo molte più informazioni, ma diciamo per “vedere l’effetto che fa”. Francamente, lo trovo leggermente noioso, e forse non per tutti, però nel suo insieme è preciso nei concetti che propone con i suoi diagrammi cartesiani.

DENTISTA E “VENDITORE” SI NASCE O SI DIVENTA?

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1. La vendita aggressiva e il professionista

ATTENZIONE! Nello scrivere questo articolo ho deciso di usare alcune parole e immagini un po’ “forti”, chi mi segue sa che non è mia consuetudine. L’ho fatto perché se si guardano i video o si leggono i testi di qualche maestro del settore, di parolacce se ne sentono e vedono a bizzeffe. E’ la “cultura della vendita”, probabilmente, che tira alla volgarità, perciò, per stare più in tema, mi sono adeguato. Mi scuso in anticipo.

Su alcune fanzine su Internet (sarebbero in realtà “riviste online”, Blog, pagine Facebook eccetera, ma a me viene di chiamarle così: fanzine), ma anche su qualche social, rivolte a quello che, sempre a me, piace chiamare “il mondo dei dentisti” (non “settore”, o, per carità, “comparto” odontoiatrico come si legge in giro, parole a mio parere poco adatte a un ambiente professionale), sono apparsi alcuni commenti, scritti da dentisti e non, a proposito di presunte applicazioni della “tecnica di vendita” nel corso dei colloqui che si sostengono con pazienti ai quali si fa una proposta di cura e di prezzo, o “preventivo”.

Grossomodo, in questi interventi, in parte critici, la questione è così presentata:

1) in premessa, si osserva che nel “mercato” *, a differenza che in passato, si vedono oggi utilizzare negli studi delle particolari “tecniche di vendita”, con lo scopo di convincere più facilmente i pazienti ad “accettare il preventivo”, specie, ovviamente, se di alto importo; si tirano in ballo “emozioni”, si parla di “setting” e altro, cose che nulla alla fine hanno a che fare con la medicina.

* (ma c’è un “mercato” dell’odontoiatria? O c’è quello dei dentisti? O quello degli studi? C’è un “mercato” per la medicina? Sempre che di medicina si stia ancora parlando. Paolo Sylos Labini nel 2002 disse: “il mercato va bene per le scarpe…nel campo sanitario funziona male perché parecchi servizi sono molto differenziati”; frase da interpretarsi così: siccome ogni cura è unica perché unica è la persona cui è prestata, si è davanti a una personalizzazione totale, non c’è quindi “un prodotto”, perché un minimo di standardizzazione affinché qualcosa sia definibile “prodotto”, ci deve essere, perciò, se manca un prodotto non ci può essere il suo “mercato”).

2) ci si domanda se queste “tecniche” siano o meno consone alla natura del rapporto medico-paziente (e, aggiungo io, a tutti i rapporti fra i professionisti iscritti ad un Ordine professionale e i loro clienti). Si pone in sostanza una “questione etica”, in forma di logico parallelismo fra l’uso di queste tecniche e il voler “forzare la mano” al potenziale paziente/cliente, per indurlo ad accettare quanto il professionista o “la struttura” vuole sia accettato: dalla modalità di fornitura della prestazione, al suo prezzo e al modo di pagare. Ma ciò non per convinzione e “alleanza terapeutica”, ma facendo ricorso a manipolazioni psicologiche, e di questo se ne vede menar vanto e si organizzano appositi corsi.

3) ci si è spinti ad insinuare il dubbio che in certi casi (ovviamente sempre degli altri!) il (malcapitato?) paziente-cliente non abbisogni in realtà di proprio tutto quello che gli si propone, con queste “tecniche”, e che in fondo dietro l’applicazione di queste “tecniche di vendita” ci sia in realtà l’obbiettivo di “vendere” più prestazioni di quanto sarebbe necessario, il cosiddetto overtreatment.

4) in qualche commento si cerca di giustificare l’utilizzo di queste tecniche di vendita sostenendo, in sintesi, che siccome il paziente non può sapere ciò di cui veramente abbisognerebbe per raggiungere risultati eccellenti sotto tutti i profili, se si usano tecniche per fargli fare qualcosa in più di quello che, senza l’applicazione di queste tecniche, farebbe, lo si fa “nel suo bene”. E se alla fine il paziente avrà avuto una prestazione eccellente, “oltre quanto si aspettava”, anche se non si era presentato in visita proprio per quello, non potrà, secondo certi autori di questi commenti, che esserne contento e farà “passa-parola”; e anche se gli fosse costato, il tutto, più di quanto pensava di spendere, al più riferirà “è un dentista caro, ma è bravo” (questa frase, che ho sentito molti dentisti pronunciare anche riferita a se stessi, non mi piace; dal punto di vista del “passa parola” è una sconfitta: se un cliente riferisce questo, non è veramente soddisfatto, dovrebbe infatti dire casomai: “guarda, visto il risultato: i soldi meglio spesi in vita mia!”).

5) infine, qualche commento lamenta il fatto che in qualche studio non sia il dentista personalmente ad applicare queste “tecniche”, ma dei “commerciali” (una volta si chiamavano “segretarie”), particolarmente addestrati alla “manipolazione psicologica” dei malcapitati pazienti. Insomma, un “lavoro sporco”, a scapito dell’etica e pure della deontologia, ma soprattutto, dei colleghi meno “furbi” che continuano a praticare secondo “scienza e coscienza”, senza applicare, e tantomeno conoscere, queste “tecniche di vendita”, e ovviamente, che non si possono permettere il “commerciale”. Insomma, in quei commenti si adombra la concorrenza sleale.

6) E a scapito pure delle regole, forse, perché in alcuni di quei commenti ci si domanda anche se nei colloqui con il paziente condotti da questi “commerciali”, non si violi per caso la riserva posta dall’art. 2 della legge 24 luglio 1985 nr. 409, in quanto, data la sua evidente ampiezza dispositiva (“…le attività inerenti…”), se non si limitassero, detti “commerciali”, a discutere solo del “quanto, del come e del quando mi paghi”, ma si spingessero a illustrare (o a re-illustrare) con “parole loro” referti, diagnosi e terapia, discutendone magari tempi e modi per adattarla alle possibilità del paziente-cliente, andrebbe magari verificato se si sconfinasse in pratica abusiva della professione.

Comunque, ciò che questi commenti non dicono proprio, è che cosa sono queste “tecniche di vendita”. In questo articolo lo dirò io, almeno nelle linee essenziali, perché l’argomento è vasto e in un solo articolo non si può pensare di esaurirlo.

 

2. La vendita non è “il marketing”

C’è anche qualche confusione, in alcuno di quei commenti. La “tecnica di vendita” di un prodotto o di un servizio, non coincide con il suo marketing, come si vede talvolta affermare. Al più, ne è un sub-componente. E’ la stessa confusione che si vede talvolta, anche da parte di certi consulenti, quando si confonde la pubblicità, o la propaganda, con il marketing. Il marketing è un complesso di azioni, anzi un mix di valutazioni, così ci insegna una ormai quasi secolare dottrina insegnata nelle facoltà di economia di tutto il mondo (il che significherebbe che il marketing andrebbe insegnato da laureati, io lo sono e ho sostenuto esami di marketing, cosa che mi sembra invece non frequente fra i relatori sul tema nel “mondo dei dentisti”: per insegnarlo sembra bastare aver frequentato “l’università della vita”, insomma è diventato roba da praticoni).

Quelle valutazioni riguardano ciò che si fa e come, cioè il prodotto (il servizio o meglio, a mio avviso, la prestazione nel caso dei professionisti), il suo prezzo, la comunicazione attraverso cui si fa sapere quel che si fa e come e, infine, il luogo in cui il prodotto viene reso disponibile ai potenziali acquirenti, cioè la distribuzione. Si tratta del famoso “marketing-mix”. A ben guardare, se si accetta l’idea già illustrata che in medicina non può esistere un prodotto, non ci può allora nemmeno essere l’applicazione del marketing, venendone meno il componente essenziale del suo mix. Infatti, quando nel mondo dei dentisti si parla di marketing di solito ci si riferisce alla pubblicità e al più alla comunicazione, nonché, appunto, alle tecniche di vendita.

Considerando infine che non è concepibile l’idea di una distribuzione se il dentista opera in una sola sede fissa (sono i clienti che si devono recare presso lo studio, non il “prodotto” che va verso di loro), si può concludere che il marketing in quanto tale, non sia applicabile nella gran parte dei casi.

A meno che non si compia una trasformazione della medicina in prodotto seriale, cosa che a giudicare da certe modalità di comunicazione che si vedono in giro è già praticata, e che si riesca anche a dare sostanza all’idea di distribuzione, risultato ottenuto, a mio avviso, in due modi: quando ad una comunicazione pubblica dell’offerta di cure si associa l’apertura di “punti vendita” (catene di studi) vicini fisicamente al pubblico raggiunto da quella comunicazione, e quando, come hanno fatto i dentisti di Stati limitrofi (a mio avviso gli unici che, così facendo, sono riusciti ad applicare il marketing nell’insieme dei suoi componenti all’odontoiatria), si organizzano servizi automobilistici per andare a prendere a casa i potenziali clienti.

Quando, come appena sostenuto, si riesce a completare il mix del marketing, cosa praticamente impossibile per il dentista “normale” che si dovrà quindi accontentare di utilizzare un “marketing zoppo”, è facile che le sinergie fra i componenti del mix producano buoni risultati. Resta da interrogarsi se, una volta concretizzato il completo dispiegamento di tutti gli elementi del marketing mix, si stia ancora nel campo dell’offerta privata e professionale di medicina.

Le “tecniche di vendita” dunque sono al più una parte del marketing, e precisamente del suo elemento “comunicazione”, che interviene di solito quando il prospect (così si chiama il cliente potenziale, nel gergo della vendita) è già arrivato in studio, siccome di “vendite per corrispondenza” di cure odontoiatriche non ne ho avuto finora notizia (si adombra la cosa ora con gli allineatori dentali, ceduti direttamente al pubblico, spediti a casa, dalle ditte produttrici bypassando i dentisti).

Con il marketing nel suo complesso, si può quindi dire, si punta a fare arrivare la gente allo studio con determinate aspettative già “plasmate” rispetto al “prodotto” e al suo prezzo. Con la tecnica di vendita, o “vendita tecnica”, si mira a concludere un contratto con il più alto numero possibile delle persone arrivate, il famoso “tasso di conversione” delle visite (o “contatti”, o “lead”) in clienti effettivi, con l’obbiettivo di massimizzare così il rendimento dell’investimento fatto per farle arrivare a bussare alla porta dello studio.

Quindi tutto regolare? Si, ma quelle critiche all’idea di vendita da cui siamo partiti, sono da riferirsi a quei casi in cui un alto “tasso di conversione” viene perseguito con la manipolazione psicologica, intesa, come già detto, come insieme di azioni in grado di ottenere dal prospect l’adesione a una proposta che, senza quella manipolazione, non ci sarebbe stata.

Nel seguito, illustrerò la mia idea di “vendita manipolatoria”, e lo faccio perché c’è del fascino: a chi non darebbe un senso di potenza l’idea di poter indirizzare le decisioni altrui con particolari artifici che rendono tali azioni quasi in odor di magia? (quanti sanno che il testo fondativo della c.d. “pienneelle”, PNL, pseudoscienza epigona del comportamentismo skinneriano inventata nella California lisergica di fine anni sessanta, che vari guru della vendita inalberano come vessillo sfoggiando titoli e qualifiche del tutto inventate, come se fossero lauree ma non lo sono, si intitolava: “La struttura della magia”?).

Non “sputo sopra” quindi alle tecniche di vendita, intanto perché mi hanno fatto mangiare per un po’, e poi perché ho frequentato a suo tempo dei corsi che me le hanno fatte entrare in simpatia. Ritenendomi dunque un loro ex-cultore, mi fa piacere poterne parlarne ora con un po’ di distacco, senza emozioni, cosa che desideravo fare da molto tempo e la comparsa del tema di cui ho parlato in apertura, me ne dà finalmente l’occasione.

Il metodo che, in breve, illustrerò, perché servirebbe ben più spazio e magari un corso,  è valido comunque per costruire delle efficaci procedure di gestione dei colloqui, e non solo, potendolo impiegare anche nella costruzione di testi, che non per forza devono essere orientati alla manipolazione psicologica: si tratta insomma di decidere se superare o meno certi confini, dunque un problema, trattandosi di professioni liberali, di libera scelta.

 

3. La vendita manipolatoria o “assassina”

Innanzitutto, bisogna sapere che sì, è vero, queste “tecniche di vendita manipolatorie” funzionano alla grande. E’ davvero possibile indurre gli altri a scucire denaro, e anche tanto, per cose di cui nemmeno avevano conoscenza, e magari nemmeno avrebbero voluto, fino a quando non hanno incontrato il venditore. E al primo incontro! E’ anche possibile indurre le persone ad accettare prezzi (molto) più alti del normale per prodotti e servizi che, se presi da altri fornitori, gli costerebbero di meno. E alla fine è pure possibile farsi riferire da loro altri clienti (il c.d. “passa-parola indotto”).

La manipolazione viene perpetrata utilizzando artifizi verbali e non verbali, questi ultimi da intendersi come l’impiego preordinato di materiale stampato, e anche il cosiddetto “linguaggio del corpo” (e dell’ambiente), in modo opportuno. Probabilmente a tutti coloro che leggeranno questo articolo è capitato di cadere “sotto le grinfie” di un venditore che utilizza queste tecniche, e ne ricorderanno i modi e le parole.

L’obiettivo principale da raggiungere è quello di creare o amplificare un bisogno, e far pensare che solo il prodotto o servizio che si vuole vendere, o una particolare persona (il c.d. “rainmaker“), è in grado di soddisfare. Più si riesce ad alzare la percezione di questo bisogno, nel colloquio, più alto sarà il prezzo che il prospect sarà pronto ad accettare, e così il relativo acconto, che va assolutamente preso in prima visita (meglio ancora se si ottiene l’adesione a un piano di pagamento rateale affidato ad una finanziaria) perché, passando il tempo inevitabilmente tenderà a ridimensionare la percezione di urgenza di quel bisogno, e la conseguente valutazione del suo prezzo, che quasi sempre risulterà troppo alto. E addio vendita. “Più tempo passa dal colloquio di vendita, più prende peso la decisione negativa su quella positiva”.” Così ci indottrinava il master del primo corso di vendita che feci, trenta e più anni fa.

Quest’efficacia, è data in primo luogo dall’impiego in colloquio di procedure standardizzate. Non si tratta quindi di improvvisare, davanti al prospect, non è, la vendita tecnica, cosa da istrioni, ma una recita a memoria di una parte ben definita, un vero e proprio copione (in gergo si chiama script di vendita), rispetto dei tempi, saper cambiare di passo quando si riconoscono nel prospect determinate reazioni verbali e non verbali. E’ proprio questa alta standardizzazione la forza di queste tecniche, anche perché è grazie a questa che si possono insegnare pressoché a chiunque, in poco tempo e  per applicarle non serve alcuna preparazione pregressa e nemmeno cultura: basta seguire il copione. Memorizzare.

Poi, è vero, i più virtuosi sapranno cosa, come e quando inserire nel copione delle varianti di successo, ed è questo che farà la differenza fra il venditore normale e quello superlativo. In ogni caso, non è certo la fantasia la prima arma di questo tipo di venditore. Si può quindi dire che forti venditori non serve nascere, lo si può diventare se qualcuno te lo insegna e poi con la pratica sul campo. E soprattutto se non ci si annoia a reiterare all’infinito le stesse storie.

Questa standardizzazione, implica che c’è molto lavoro da fare prima di riuscire a mettere a regime queste tecniche: occorre infatti creare lo script e i supporti visivi da usare nel corso del colloquio di vendita (ad esempio depliant illustrativi, filmati o diapositive, modelli dimostrativi, schemi contrattuali da tirar fuori al momento giusto e far firmare), prevedere tutte le possibili risposte del prospect, chiamate in gergo “obiezioni”, definendone a priori e in modo dettagliato le risposte che gli saranno ammannite.

Si deve anche pensare al “piano B”: se non si riuscisse a chiudere la vendita, qualcosa si deve sempre portare a casa, ad esempio uno o più nomi di persone collegate al prospect, i referrals, da contattare, magari telefonicamente, usando il suo nome come door opener, per coinvolgerle in una nuova tentata vendita magari invitandoli in studio per una visita gratuita.

Non basta dunque frequentare un corso di vendita, quando si parte da zero, ma si deve poi, una volta tornati a casa, creare le procedure e i materiali, fare delle prove, davanti allo specchio e con l’uso di registratori e telecamere per vedersi e correggersi. La vendita così concepita è, dal punto di vista organizzativo, un’opera di alto artigianato.

3.1 La dotazione morale del bravo venditore

Per avere successo con queste tecniche però, oltre all’organizzazione di cui si è appena detto si deve possedere un requisito indispensabile: si deve essere spietati, meglio, degli “assassini”! Si deve entrare nell’ordine di idee di tentare la vendita sempre, in ogni occasione, con chiunque, anche con i parenti stretti. E sempre mettendo a frutto “le tecniche”. E non guardare in faccia a nessuno: se il prospect dicesse di non avere soldi, non gli si deve credere, se si arrivasse a capire che fare quell’acquisto lo metterà in difficoltà, fregarsene, perché conta solo chiudere la vendita a tutti i costi. Questo è ciò che si insegna nella stragrande parte di corsi sulle tecniche di vendita, dove sotto ogni latitudine il coach (una volta si chiamava relatore) come primo insegnamento vi catechizzerà spiegandovi che:

  1. usando verbalizzazioni più o meno diverse, ma la sostanza è la stessa, il coach come prima cosa domanderà ai suoi discenti (a voi), di solito con fare un po’ autoritario: “Ragazzi, e ragazze, noi qui pensiamo che al mondo ci siano due categorie di persone: i mettinculi e i piglianculi. Voi, da che parte volete stare?” Ovviamente, sono ben pochi (nessuno?) quelli che risponderanno di far parte della seconda categoria, e così la “motivazione” e l’”allineamento dell’aula” è a posto: sono tutti “belli cattivi” e pronti ad affondare la lama nella carne del prospect;
  2. il coach di solito così continua: “Cari ragazzi, e ragazze, io vi insegnerò come si fa a vendere merda in barattolo (anche se questa citazione non è proprio delle migliori, quando ci si vuole riferire a qualcosa che vale niente: si veda questo), ma voi dovete essere decisi, senza pietà, non dovrete mai “comprare le obiezioni” del prospect. Al momento finale dovrete “chiudere”, sentirvi come il matador che affonda la spada nel collo del toro. E ricordate che se non lo farete voi, lo farà un vostro concorrente! Meglio dunque che lo facciate voi! O no?”; ovviamente tutti saranno d’accordo, se no perché sarebbero lì?
  3. ultimo tocco di classe: “Ragazzi e ragazze, se proprio non riuscite, per vostri residui scrupoli morali, a cavare i soldi a qualcuno vendendogli qualcosa che, se non c’eravate voi, nemmeno ci pensava, o che magari sapete che non è proprio quello che fa per lui, o sapete che glielo state vendendo a un prezzo troppo alto, se volete diventare dei veri “super-venditori”, ditevi fra voi e voi che gli state comunque facendo un favore!”. La versione più brutale di questo ultimo pezzo di etica del venditore, è che: “anche se vi sembra che lo state mettendo in quel posto al vostro prospect, pensare che magari gli può pure piacere!”.

Quanto sopra, costruisce la struttura morale basica necessaria e sufficiente di un “venditore assassino”, ed è il presupposto per applicare con successo le tecniche di vendita più aggressive. La questione che riguarda il dentista, e in genere tutti i professionisti che pensassero di applicare queste tecniche, è capire se quanto si offre alla clientela si adatta ad essere venduto con tali idee. Infatti, la vendita assassina non è nata per i servizi, ma per i prodotti, e nemmeno tanto complessi, soprattutto quelli che non necessitano di un’assistenza post-vendita. In sintesi, la vendita assassina è fatta per un “mordi e fuggi”: il venditore itinerante suona alla porta del prospect, pratica la sua magia, chiude la vendita, piglia i soldi e scompare.

Per centinaia di prodotti, chiunque ne avrà esperienza diretta, le cose vanno bene così. Ora, già si può capire che vendere aspirapolvere o enciclopedie non è la stessa cosa che vendere l’opera di un professionista che di solito è diversificata, che si svolge in una sede fissa nella quale possono accedere sempre i clienti eventualmente insoddisfatti (magari pure arrabbiati) dal fatto che le mirabolanti promesse fatte nel corso della vendita non si sono poi avverate. A meno che non si chiuda lo studio dopo un certo tempo, magari per riaprirlo altrove, o si cambino le persone che ci lavorano e magari la ragione sociale, cose che, come da alcune notizie di cronaca, non sono poi tanto distanti dalla realtà. Appunto, mordi e fuggi.

Fatte queste premesse, cominciamo il nostro approfondimento sulle tecniche di vendita, dimenticandoci di assassini e delitti perché con un attento lavoro di adattamento si possono scremare i lati più negativi di questi approcci, dai quali si può sempre imparare e ricavare utili suggerimenti per meglio organizzare il “lato economico” dello studio.

 

4. La psicologia del colloquio di vendita in un grafico

Illustrerò una delle diapositive che uso nei miei corsi-consulenze di marketing (che tengo solo privatamente), dalla quale si può ben capire il “succo” delle tecniche di vendita, o meglio la teoria che ne sta alla base. Il venditore abile è quello che, grazie ad un particolare addestramento, che ripeto si fonda su concetti standardizzati e parcellizzati, e perciò come già detto assimilabile pressoché da chiunque, riesce a riconoscere, osservando il prospect, il suo passaggio attraverso ben definite posizioni psicologiche, riuscendo così a impiegare, del suo repertorio, le abilità adeguate alla posizione psicologica corrente nel prospect. Come anche a “pilotare” il prospect attraverso il passaggio fra le varie posizioni.

POZIZIONI

Il concetto importante è che la vendita si farà solo al punto più alto della curva di entusiasmo, detto “punto alfa”: nel preciso momento in cui il prospect raggiunge il “punto alfa”, mai prima (o dopo, perché può capitare che il prospect, raggiunto il “punto alfa”, se il venditore non è tempestivo, torna a una posizione precedente e allora bisogna ripartire da quella con le opportune modalità), il venditore deve assolutamente eseguire la chiusura della vendita, cioè sottoporre e far firmare al prospect un contratto impegnativo. Il venditore perciò dovrà essere in grado di: 1) fare in modo che, il “punto alfa” venga raggiunto; 2) accorgersi del raggiungimento del “punto alfa” da parte del prospect e senza indugio chiudere.

Durante il colloquio dunque, secondo la “tecnica di vendita” il prospect attraversa le posizioni psicologiche mostrate nella diapositiva. Per esemplificare, se si trattasse di vendere qualcosa che ha un prezzo elevato, come spesso accade per le cure dentistiche, questo prezzo, se comunicato al momento sbagliato, potrebbe demotivare completamente il prospect, al contrario, se il prezzo emergesse proprio al “punto alfa”, la probabilità dell’accettazione sarebbe di sicuro più elevata.

Nell’immagine il viaggio del prospect dalla neutralità (non gliene frega niente della vostra offerta) alla decisione positiva (mette la sua firma sul contratto), è rappresentato da una curva lineare; è la tecnica del venditore ciò che serve per avere questa linearità, perché se si affronta il colloquio di vendita senza la dovuta preparazione, questa curva potrebbe torcersi fino a spezzarsi, e a quel punto niente più vendita.

Il venditore deve dunque pilotare il prospect aiutandolo (o, se assumiamo l’atteggiamento del manipolatore, forzandolo) ad attraversare linearmente queste posizioni psicologiche. Non si deve poi pensare che questo attraversamento di posizioni abbia dei tempi prefissati, può essere più o meno lungo, dipende dalla combinazione data dal tipo di prodotto o servizio in vendita, dall’abilità del venditore e dalle caratteristiche del prospect.

Il “punto alfa” può infatti essere raggiunto in pochi secondi come in qualche ora (perciò, il bravo venditore si organizza per avere tutto il tempo che gli potrebbe servire per concludere). Ma soprattutto, quando il venditore ritiene che il prospect sia arrivato al “punto alfa”, basta parole! Si tiri fuori il contratto e si inizi a scrivere! (E ottenuta la firma, liquidare l’ex prospect, ora cliente, quanto prima, perché non serve più dedicargli del tempo: lo scopo è già stato raggiunto!). Anzi, continuare a parlare con il prospect ora divenuto cliente, può perfino essere pericoloso: non si sa mai che ci ripensi!

 

5. Le regole d’oro del bravo venditore

E veniamo alle “tecniche di vendita” vere e proprie. Dato il modello delle posizioni psicologiche, come fare a condurre per mano il prospect lungo quel percorso, fino a portarlo al “punto alfa”, e a quel punto sciorinargli il contratto da firmare, la mitica chiusura della vendita?

La prima assoluta e fondamentale regola di un venditore “tecnico”, è la seguente: iniziare con discorsi “spiccioli”, il tempo che fa, è arrivato facilmente in studio, per “fraternizzare”. Poi fare domande! Di ogni tipo, le più disparate, banali e intelligenti. Qualsiasi motivazione per fare una domanda va bene, purché il colloquio di vendita inizi con il venditore che pone domande al prospect. E’ l’arte del porre domande la prima abilità da sviluppare nella formazione di un venditore, e se si vuole far presto si possono definire, nello script di vendita, delle domande standard con cui iniziare, da fare sempre. Ma a quale scopo si pone tanta enfasi sulle domande?

Il primo motivo è assolutamente prosaico: se, ponendo le domande iniziali, si scoprisse che il prospect non ha autonoma capacità decisionale per firmare il contratto, rectius di mettere mano al portafoglio, il colloquio si deve interrompere, e il suo scopo trasformare non più nella tentata vendita, ma nel fissare un nuovo appuntamento con chi, per conto del prospect o insieme a lui, ha la capacità di impegnarsi contrattualmente ed economicamente. Fare una presentazione di un preventivo a chi non può decidere è considerato, nella tecnica di vendita, un errore madornale da non fare mai.

Il secondo motivo per fare domande, è capire con chi si ha a che fare, in modo da preordinare in modo efficace la gestione delle sempre presenti obiezioni. Sarà questo prospect uno sensibile solo al risparmio, o invece è uno sensibile all’immagine, o è uno che compra per il prestigio, per vantarsi con gli amici, o perché gli piace avere cose di elevata tecnologia, oppure ecologiche? Di sicuro, le persone che si incontrano possono essere di tanti tipi. Se si scoprisse di avere a che fare con uno sensibile solo al prezzo, sarebbe inutile, spreco di tempo e perfino controproducente, magnificagli le sofisticate caratteristiche tecnologiche delle procedure che gli si stanno proponendo. Se uno è sensibile all’ambiente, allora si potrà avere buon gioco per motivarlo all’acquisto parlandogli della biocompatibilità dei materiali utilizzati e del minimo impatto ambientale delle procedure impiegate. Anche qui, si tratterà di costruire a priori delle fraseologie standardizzate, adattate ai vari tipi di prospect.

Diciamo pure che la presentazione preordinata, quella dove si usano le fraseologie e i materiali già preparati, non deve assolutamente iniziare prima che il prospect abbia, attraverso il colloquio indotto dalle domande del venditore, dato le informazioni che servono: è lui che può decidere l’acquisto, a cosa è più sensibile (al risparmio, al prestigio, alla salute, all’ecologia, all’immagine, alla famiglia), cioè su quali motivazioni profonde il venditore dovrà fare leva per indurlo a firmare il contratto qualora nel corso della “presentazione” obiettasse o titubasse.

La presentazione poi non deve iniziare se il prospect non da segnali di interesse e di attenzione a quanto gli si sta per offrire, e finché non li si vede, questi segnali, si deve continuare con i discorsi “spiccioli” e le domande. Nel momento in cui il venditore ritiene che il prospect è pronto a iniziare il percorso attraverso le posizioni psicologiche, inizierà la sua illustrazione, di solito esordendo con frasi fatte del tipo “Bene, signor Rossi, siamo qui allora per risolvere definitivamente il suo problema e consentirle di cambiare vita, vediamo come”. Poi s’inizia una fase che serve per rassicurare il prospect sulla qualità di quanto si offre e di chi lo offre, successivamente, si esegue una “chiusura intermedia”, o “di controllo”, ad esempio: “bene signor Rossi, ha compreso quanto le abbiamo illustrato?”, oppure “Ritiene che quanto abbiamo predisposto per lei faccia al caso suo?”.

Altra regola imperativa della tecnica di vendita, è quella di chiudere in prima visita: se il prospect ci deve pensare, il venditore ha fallito. La ragione dell’orientamento a chiudere nel primo, e unico, colloquio, è che “più passa il tempo, più aumenta il peso della decisione negativa su quella positiva”, considerazione basata sull’empirismo, ma reale. Del resto, se si pensa al modello della curva di entusiasmo illustrato, è chiaro che il “punto alfa” essendo un massimo dell’entusiasmo raggiunto dal prospect in presenza del venditore e anche grazie alla sua abilità, una volta fuori dall’influenza di quest’ultimo non potrà che ridursi.

 

6. Le fasi del colloquio di vendita

Per passare all’operatività, la maggior parte delle teorie della tecnica di vendita, perché ovviamente ce ne sono diverse, anche se da almeno mezzo secolo sono tutte alla fine basate sugli stessi identici concetti, questi che vi sto presentando, punta il dito sul fatto che il colloquio di vendita va gestito, dal venditore, facendo in modo di seguire in modo rigido delle fasi della propria azione ben identificate. L’idea è che se ciò avviene, la vendita, cioè la chiusura, sarà un fatto quasi automatico: nel momento in cui il venditore tirerà fuori il contratto e inizierà a scrivere, il prospect non gli dirà perciò: “fermo, che sta facendo?”, e se comunque accadesse, la risposta a questa obiezione estrema, sarà: “ma signore, sto solo ratificando quanto ci siamo detti”, che però funzionerà solo se si sarà rispettata la “sacralità” di questo processo per fasi.

La divisione in fasi del colloquio di vendita serve per meglio condurre il prospect lungo le varie posizioni psicologiche, e infatti i nomi dati alle fasi richiamano quelle delle posizioni. L’idea forte è che ogni fase ha un inizio e una fine, solo dopo la quale si può passare alla  fase seguente. Se tutto è condotto dal venditore a regola d’arte, il prospect si muoverà verso il massimo entusiasmo con un andamento lineare e crescente, come mostrato nella curva di entusiasmo e alla fine la chiusura, cioè la firma del contratto, apparirà quasi, agli occhi del prospect, un atto dovuto. Ed è proprio così, posso assicurare, che avviene nella realtà di colloqui di vendita condotti in modo professionale da venditori addestrati, previa la meticolosa preparazione cui ho accennato.

Vi propongo un modello di conduzione della vendita per fasi che conosco da decenni, e che reputo il migliore e il più articolato, in quanto comprende ben sette fasi, contro le quattro-cinque di altri similari modelli. L’idea centrale insita in questi modelli per fasi, è che l’abilità del venditore, che ricordo deve recitare a memoria una parte, in base alle varie fasi, è che non si deve “saltare” una fase se non si è certi che sia stata completamente esaurita, cosa che si verifica con delle apposite domande di controllo, dette anche chiusure intermedie, di cui si è già detto.

SETTEFASI

L’addestramento del venditore comprende soprattutto la capacità di decifrare i segnali verbali e non verbali emessi dal prospect, fra i quali i principali sono: di attenzione positiva, di disinteresse verso quanto il venditore sta dicendo, di chiusura. E’ l’osservazione di questi segnali che deve guidare l’azione del venditore, facendogli capire in quale delle sette fasi si trova il prospect, anche quando, come nel caso del disinteresse, dovrà escogitare un diversivo verbale, detto perla d’interruzione, per poter ridestare l’interesse del prospect vero il prodotto o servizio che gli sta proponendo.

Vi sono anche delle tecniche, da impiegarsi nel colloquio, veramente manipolatorie, ad esempio quella del “ritmo dei si”: si pone una sequenza di domande cui già sappiamo il prospect risponderà con un “si” (“lei è nato nel 1970?” e altre amenità del genere basate su informazioni che si hanno già), e siccome l’ultima di queste alla fine di un “ciclo di si” sarà: “Allora siamo intesi sig. Rossi, firmi qui”, non serve dire altro: sarà un altro “si”! Un’altra tecnica simpatica, è quella della “regola del silenzio”: se il prospect appare titubante, e il venditore non ha sulla lingua altri verbalismi, stare zitto può essere risolutivo, perchè per “il principio del bisogno di parlare“, il prospect prima o poi parlerà, magari dandoci nuovi appigli per convincerlo o addirittura, a me è capitato, per accettare senza ulteriori indugi la proposta!

Di espedienti come quelli descritti i vari manuali di “vendita assassina” sono pieni, basta decidere se si vuole diventare, appunto, un venditore, o restare un professionista. O, se si riesce, una giusta “via di mezzo”!

Per avere più pazienti. Il marketing della parola scritta a disposizione del dentista. Correva l’anno 1995. E funziona sempre!

INSERZIONEHo deciso di stampare, per farne omaggio ai miei migliori clienti, alcune copie fotostatiche del manuale che pubblicai, nel 1995, con l’allora editore Masson. Si trattava, come chi avrà la pazienza di leggere i pdf allegati a questo articolo scoprirà, di un completo metodo autodidattico per incrementare la clientela, ridurre i costi e migliorare gli incassi dello studio dentistico.

Si intitolava il “Letter sistem”, cui seguì poi una seconda edizione, nel 2001, più focalizzata sul tema della gestione della visita in chiave di marketing. La seconda edizione è tuttora disponibile qui, con una preview di Google.

All’epoca fu un successo. Ne vennero stampate circa un migliaio di copie, acquistate tutte, il cui prezzo di copertina era 600.000 Lire. Chi ha vissuto i tempi della Lira, sa che quel prezzo era semplicemente enorme. Eppure si vendettero con soddisfazione di autore ed editore.

All’epoca, organizzavo dei corsi privati per quegli studi che volevano avere un aiuto per mettere in pratica le indicazioni del manuale. Che sarebbero molto utili anche oggi, considerando che sempre di più si comunica scrivendo (e non è facile, senza una guida si rischia), basti pensare all’uso di Internet, Blog e Social network.

Lo scopo di questo post, è di poter mettere a disposizione due articoli, i pdf qui allegati, nei quali è dettagliatamente spiegato il contenuto del “Letter sistem”, ma con una completezza e ricchezza di idee tale, che chi li leggerà….diventerà un “esperto” di marketing odontoiatrico, e troverà di sicuro ottimi spunti per migliorare la sua azione promozionale e di pubbliche relazioni.

Sono a disposizione per chi, dopo aver letto gli articoli allegati, vorrà pormi delle domande.

Si vedano quindi i seguenti allegati:

LETTER_SISTEM_DENTAL_CADMOS_

LETTER_SISTEM_INTERVISTA

FINANZIAMENTI DELLE CURE ODONTOIATRICHE: (NON E’) TUTTO FACILE?

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Pubblico un breve “botta e risposta” fra alcuni utenti del forum ODONTOline.it e il sottoscritto (moderatore del forum). L’argomento sono i “finanziamenti” che, tramite i dentisti, alcune società finanziarie concedono ai pazienti al fine di pagare le cure ricevute o da ricevere. In particolare, il tutto prende spunto dalla diffusione di nuovi prodotti creditizi, immediati e che non richiedono istruttoria, che il dentista può gestire direttamente in studio da un terminale POS. Un utente del forum domandava quindi se tali prodotti convenivano, se qualcuno aveva esperienza sugli stessi, insomma, se “funzionavano”.

Ovviamente, visto che la pratica di questi “finanziamenti” è assai diffusa, le risposte non sono mancate, ma alcuni aspetti, diciamo più “tecnici”, ad avviso del sottoscritto non venivano focalizzati, e così ho detto la mia.

E’ bene sapere che questi prodotti finanziari proposti direttamente dal venditore al cliente, non “nascono” per finanziare l’acquisto di servizi, ma di beni di consumo durevoli, quali autovetture o elettrodomestici. Averli estesi anche al settore dei servizi, a mio avviso, ha introdotto distorte modalità di relazione fra il professionista e la clientela. Infatti, la cronaca mostra quanto possa essere dannoso per i pazienti pagare prima per dei servizi non ancora ricevuti.

Vi sono però anche dei danni potenziali per lo studio. Infatti, se non si ha una “mano” amministrativa più che ferma, incassare prima ciò che ancora non ha avuto un costo può portare ad atteggiamenti disinvolti rispetto al denaro in cassa, trovandosi magari molto a mal partito se, per un qualsiasi motivo, questo flusso anticipato si interrompesse o solo riducesse. Infatti, ci si troverà così a lavorare sostenendo costi avendo magari già speso i denari che sarebbero serviti per coprirli.

Per non parlare di aspetti fiscali in caso di tassazione “per cassa”, i quali postulano, sempre a mio avviso, di trattare con molta circospezione ogni tipo di incasso anticipato.

Il mio consiglio ai dentisti, pertanto, è di evitarli e lasciare che i loro pazienti si arrangino nel reperire i fondi per sostenere la spesa per le cure. Si dovrebbe dunque considerare “innaturale” per un professionista il fatto di proporre al suo cliente queste soluzioni. Oltretutto, si noti, esso svolgerebbe un lavoro di intermediazione, ma anche burocratico, non pagato per le finanziarie, anzi, perfino le paga! Assurdo.

In ogni caso, di seguito chiarisco alcuni punti che mi sono sembrati poco compresi nel dibattito di cui ho detto all’inizio.

Come prima cosa, ho chiarito che il dentista ha a disposizione due diversi prodotti finanziari da offrire ai suoi pazienti: una si chiama “finanziamento”, l’altra è la “cessione del credito”. I due tipi di prodotto, comunque, fanno parte del “credito al consumo”, regolato dal Testo Unico Bancario, articoli da 121 a 126. Questi nuovi prodotti basati sul POS, di solito fanno parte della seconda categoria.

Per quanto si leggerà oltre, è importante che il dentista sappia esattamente, rispetto ai prodotti finanziari che eventualmente proponesse ai suoi pazienti, se si tratta dell’un tipo o dell’altro. Naturalmente, nulla vieta di averne di entrambi i tipi. Non sempre però tale differenza risulta dal materiale pubblicitario delle società che li propongono, meglio quindi fare la domanda alle persone di questa che ve li presenteranno. In ogni caso, ecco le differenze fra i due tipi di credito al consumo:

1) il finanziamento è quello che si fa prima di cominciare la cura, la cessione del credito invece si fa (solo) a cure eseguite;

2) per il finanziamento alla finanziaria si manda un preventivo, con la cessione la fattura per cure già fatte (a prova dell’esistenza del credito);

3) con il finanziamento, quando la finanziaria manda i soldi si fa una fattura intestata al cliente, invece che alla finanziaria come si dovrebbe, in virtu del fatto che il cliente ha delegato la finanziaria a pagare, in suo nome e conto, il dentista; per il dentista l’incasso è compenso professionale ed è considerato per lo studio di settore, il paziente porta in detrazione l’importo che risulta in fattura tutto nell’anno, anche se paga a rate;

4) con la cessione invece, l’incasso non è più un compenso professionale, si veda il successivo paragrafo. Al paziente facciamo comunque detrarre la spesa che risulta dalla fattura tutta nell’anno.

Una questione che ritengo parecchio importante, di tipo fiscale, che ho posto nel forum, è la seguente. Gli incassi ottenuti con i prodotti basati sulla “cessione del credito”, non sono più incassi dovuti alla professione ma, in base al secondo comma dell’articolo 6 del TUIR, “proventi conseguiti in sostituzione di redditi”. La conseguenza è che in dichiarazione dei redditi vanno messi nel rigo RE3 e non in RE2, e allora vanno a finire nel rigo G03 dello studio di settore e non in G01. Lo studio di settore, come si dovrebbe sapere, calcola un minimo annuale di incassi da dichiarare, e lo confronta con quanto effettivamente dichiarato nel rigo G01. A due miei clienti è capitato che, utilizzando un sistema di finanziamento dei loro pazienti basato sulla cessione del credito, si sono trovati non congrui nello studio
di settore.

Infine, sempre ragionando attorno ai finanziamenti basati sulla “cessione”, non ci si dimentichi di chiedere, a chi propone l’adesione a questi prodotti, che cosa succede qualora il paziente non pagasse le rate alla finanziaria: le chiederanno al dentista o si assumeranno loro il rischio dell’insolvenza?

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CONTABILITA’ E AMMINISTRAZIONE ODONTOIATRICA

Allargare la clientela del dentista solo scrivendo. Quando, come e perchè

Nel forum “Gestione dello studio” di Odontoline.it. di cui sono il Moderatore, è in corso una discussione dal titolo: “Giornata mondiale della Salute orale. Farete iniziative?”. Alcuni Odontoiatri si domandano se e come “sfruttare” questa occasione (è indetta dalla FDI per il 20 marzo), come occasione di contatto (o ri-contatto) con la loro clientela. Pubblico la mia risposta.

Leggo con piacere questi post nei quali si (ri)parla, se ho ben capito, di comunicazione scritta inviata per posta ai propri clienti. Quella che “ante 2006” (prime disposizioni liberalizzatrici della pubblicità professionale), era l’unico modo per un professionista di farsi pubblicità su larga scala, sembrava essere stata messa in ombra dall’avvento della messaggistica elettronica.

Un altro motivo di oscuramento di questa modalità di comunicare è certamente il costo. Inviare email o infilare volantini nelle cassette delle lettere è molto più economico. Ma sarà egualmente efficace?

Gli invii postali sono fra le forme pubblicitarie più studiate dai tecnici del marketing: ad esempio si ritiene che la “redemption” (il rapporto fra lettere inviate e “ritorni”) sia variabile in funzione del rapporto pre-esistente fra inviatore e ricevente: per una spedizione fatta a persone che non conoscono chi spedisce (c.d. “mass mailing”), si ritiene valido l’1/2 %. La percentuale è bassa, ci sono vari motivi fra cui non sottovaluterei il fatto che molti non sono in grado di comprendere il significato di un testo, e per questo si tende a fare testi brevi, parole comunissime, caratteri grandi e spaziati.
Si dovrebbero anche evitare errori grammaticali e ortografici, ma oggi, grazie alla recrudescenza dell’analfabetismo di ritorno, fenomeno evidenziato dal linguista Tullio De Mauro nel 2013, si può ben sperare che passino inosservati.

Ma cosa si intende per “ritorni”, e ci sono tecniche per aumentare la “redemption”? Un “ritorno” non sempre è un fatto direttamente economico, a meno che lo scopo della spedizione sia quello di fare una vera e propria “vendita per corrispondenza” (es. l’iscrizione a un corso, l’ordine di un prodotto). Per un professionista il “ritorno” sarà, plausibilmente, il ricevimento di una manifestazione di interesse, di solito una telefonata dalla quale ci si attende scaturiscano prestazioni e quindi parcelle. Lo scopo della lettera quindi dovrebbe essere ben delimitato: se l’obbiettivo è la telefonata, il testo e l’immagine grafica (che include anche la qualità della carta) dovranno puntare a questo scopo e non altro.

Se la spedizione è fatta a già clienti, la “redemption” può essere superiore a quella tristemente bassa sopra citata. A condizione però che venga reiterata nel tempo. Il “gesto isolato” in pubblicità serve a nulla.

Giustamente ci si può domandare: che “figura” ci faccio se comincio a mandare lettere senz’altro motivo apparente che accaparrarmi lavoro? Se poi si risultasse troppo insistenti, a parte i costi, si potrebbe perfino infastidire e ottenere l’effetto opposto. Ecco che allora si cerca la “scusa buona” per manifestare la propria presenza attraverso un plausibile motivo di “contatto” con la clientela. Trovare queste “scuse” non è sempre facile, tanto che si pensa qui di sfruttare questa “Giornata mondiale della salute orale” per farsi vivi. Invece non è così.

Un professionista ha molte sensate e legittime motivazioni per reiterare il “contatto” con i suoi clienti anche quando questi sono “in sonno”. Prima di parlarne, ovviamente in breve, vorrei si tenessero presenti le particolarità davvero uniche e da considerarsi veri e propri vantaggi, della comunicazione scritta:

 

1) “spezza la dimenticanza”, plausibilmente la causa più diffusa della apparente disaffezione di un cliente: non ha cambiato dentista, si è semplicemente dimenticato che ci deve andare. Lo stesso effetto lo si potrebbe ottenere con le telefonate “di richiamo”, ma ci vuole molto più tempo per raggiungere lo stesso numero di persone, e mentre un testo lo si studia con cura, in una telefonata può capitare di tutto, incluse le figuracce;

2) rafforza la comunicazione verbale: un “discorso” fatto a un cliente prima o dopo una seduta, qualora seguito da un “pezzo di carta” darà più autorevolezza al parlante e potrà perfino evitare il sempre presente rischio di malintendere, in buona o cattiva fede, da parte dell’ascoltante;

3) aumenta la quantità di comunicazione, sia perchè “moltiplica” i discorsi fatti, sia perchè un foglio di carta può essere visto da più persone (una lettera entra infatti, di solito, in una famiglia o in un posto di lavoro e tanti possono vederla). Detto in modo più tecnico, potenzia il “passa-parola”.

 

Proprio da questo ultimo punto prendo spunto per dimostrare come i motivi per comunicare per iscritto sono molti, e perchè conviene. Una regola empirica della pubblicità, credibile, sostiene che la probabilità che un “prospect” (cliente potenziale) si trasformi in cliente effettivo, aumenta del 60% dopo sei “contatti”. E’ la “regola del 6/60” di cui si tratta nei corsi di vendita.

E’ la definizione di “contatto” che qui interessa. Questo va visto come qualsiasi elemento in grado di far pervenire al “prospect” il nome del professionista: la referenza di un suo parente o amico già paziente, ciò che può trovare su Internet o sui più tradizionali elenchi del telefono, mettiamoci pure la pubblicità visto che oggi è libera, il materiale stampato che riceve in occasione di una visita e le lettere in questione (o le email, o gli SMS, o il post del “social network”). Il professionista che si vuole quindi organizzare dal punto di vista promozionale, dovrebbe avere come principale scopo del suo agire proprio la moltiplicazione dei “contatti”.

Facciamo qualche esempio. Quando si riceve la telefonata di un potenziale cliente, questi ha già avuto almeno un contatto (referenza verbale o “passa-parola”, esposizione a pubblicità). La telefonata è ovviamente cruciale per il “dopo” e chi risponde dovrebbe seguire una sorta di protocollo o procedura prestabilita. A seguire la visita in studio, specie quando in ballo c’è un progetto di cura (comunemente detto “preventivo”) e il potenziale cliente è nelle more di una decisione, possono giustificarsi altri contatti quali: un “verbalino” (lettera o email) di quanto ci si è detti in visita (“girabile” eventualmente anche al medico di base del paziente); se resta “titubante” una o due missive giocate sulla linea guida “siccome sono un medico e tu sei malato, è mio dovere fare il possibile per farti entrare in cura”. A quel punto una telefonata potrebbe essere utile, al limite per prendere atto della sua decisione negativa.

Aggiungendovi poi missive “neutre” ma “cortesi” o perfino “doverose”, quali auguri per le più importanti Festività, il compleanno (del paziente, non del medico), la chiusura per ferie, nuove attrezzature in studio, la partecipazione del dottore a corsi e via dicendo, si vede bene come i fatidici “sei contatti” sono facilmente raggiungibili. Si pensa perfino a missive (e se ne vedono specie su Internet) redatte sulla linea guida “non ho niente di particolare da dire, ma sono sempre qui”, nelle quali si comunicano orari di esercizio e recapiti anche se non sono cambiati. A quel punto si sarà fatto già molto per fidelizzare e allargare la clientela.

Pazienti che non pagano: basta il POS?

Sul Forum “Gestione dello studio” del sito Odontoline.it, di cui ho l’onore di essere il Moderatore, il Dottor Mauro Savone ha iniziato un topic dandogli il titolo, assai evocativo, “Come Scappare Dal Ristorante Senza Pagare Il Conto”. La sollecitazione del Dottor Savone ha destato, ovviamente notevole interesse e grande partecipazione alla discussione. Pubblico di seguito il suo post: “Mi chiama oggi pomeriggio perché deve ricementare una corona, la faccio venire subito in studio e raccolgo i dati della cartella e l’anamnesi (sembrava sorpresa che le stessi chiedendo tutti quei dati, ed aveva un’espressione stranamente assente/assorta mentre lentamente mi rispondeva). Si tratta di un ponte 46-47 su due impianti, con corone totalmente incongrue, e che basculano sui monconi, quindi non c’è da sorprendersi se le si staccavano sempre, come mi racconta. Nella borsa ha una collezione di corone “provvisorie” dentro altrettante bustine sigillate, a quanto pare è stata da numerosi dentisti per ricementare quel ponte, e tutti hanno indistintamente criticato la protesi. Mi chiede se faccio impianti, di che marca sono i miei impianti (?), e poi quando naturalmente arriva il momento di pagare le chiedo 30 miseri euro, mi fa “c’è una banca da queste parti?” al che io “non si preoccupi, ho il POS”, però lei “allora vado a chiamare mio marito” ed esce portandosi via tutto (normalmente quando sono in buona fede, lasciano in studio la borsa, un cappello, il cappotto). Il marito è un signore che è entrato con lei in sala d’attesa, non l’ha accompagnata dentro, e dopo pochi minuti è uscito. E’ passata un’oretta e ovviamente non si è più fatta vedere. Per curiosità controllo il numero di telefono che mi ha fornito durante la raccolta dati, e lo verifico con quello rimasto nel registro del mio cellulare quando mi ha telefonato per fissare l’appuntamento… l’ultima cifra che mi ha dettato in cartella era sbagliata, un 1 invece di un 3.”

Si tratta di situazioni che, molto probabilmente, i dentisti hanno sempre dovuto fronteggiare ma che forse oggi sono ancora più frequenti. Io mi sono interessato parecchie volte, su richiesta di miei clienti, della definizione di strategie che consentissero di intercettare, per quanto possibile, problemi del genere, focalizzando le soluzioni sull’aspetto relazionale. Ho quindi a mia volta pubblicato nel Forum il seguente post, corredato di allegato:

“Mi permetto di postare un intervento in questa interessante e importante discussione, perché la ricerca di soluzioni a questioni simili è stata una domanda postami più volte da vostri colleghi. Quell’esperienza è poi confluita nei due libri sulla gestione del rapporto con la clientela pubblicati a suo tempo da Masson, in particolare nell’ultimo, il cui sottotitolo recitava appunto “Organizzazione operativa e relazionale”.

Si tratta quindi di questioni legate alla relazione, aspetto che, come tutte le altre materie della gestione, si può, anzi a mio avviso si deve, organizzare con opportuni metodi e tecnologie.

L’idea di base che può servire nelle primissime fasi del rapporto con un cliente-paziente si può sintetizzare in “capire, subito, chi ho davanti”. Come fare? Certamente non si riesce a leggere nel pensiero degli altri e le esperienze qui raccontate dimostrano che davanti a certi atteggiamenti elusivi, se non proprio truffaldini, non c’è alcuna difesa a posteriori.

E’ necessaria la creazione di procedure, definite con pazienza e molta cura, da far “scattare” in ben precisi momenti, con lo scopo di intercettare le situazioni problematiche in modo da poter adottare qualche tecnica di difesa preventiva.

Organizzare procedure relazionali in una organizzazione cosi complessa come lo studio dentistico, anche se piccolissimo, un vero “sistema sanitario in miniatura”, richiede la conoscenza di strumenti quali: 1) i diagrammi di flusso; 2) la creazione di testi da utilizzare nelle comunicazioni verbali e scritte e nei documenti che si consegnano; 3) un minimo di capacità grafica per poter creare oggetti comprensibili e utilizzabili nel rapporto con i pazienti.

Ad esempio, si potrebbe definire uno “script” telefonico, cioè una fraseologia standardizzata da inserire nella conversazione con il paziente sconosciuto, con il quale chiedere di portare con sé un documento d’identità e la tessera sanitaria (cioè il CF), spiegando che senza non è possibile accedere alle prestazioni per motivi medico-legali e fiscali. Per completare la procedura, rendendola più efficace, si potrà quindi chiedere se e a che indirizzo può ricevere una email o un SMS, e a risposta affermativa procedere immediatamente dopo la chiusura della telefonata ad inviare una comunicazione di conferma appuntamento, ricordando l’orario e la necessità di portare con sé i documenti indicati, infilandoci una frase che abbia relazione con gli onorari e magari arricchendola con una piantina stradale e altre info sullo studio o sulla visita (es. di portare eventuali refertazioni).

All’arrivo del già meno sconosciuto cliente (se ne avranno infatti, con alta probabilità, già saggiate le reazioni, ovviamente se chi gli parla sia in grado di coglierle e interessato a farlo), ci si dovrà ricordare di chiedere come prima cosa i documenti richiesti e, dopo averli fotocopiati, controllatane la veridicità (sul sito dell’Agenzia per il CF, sulle Pagine bianche o al limite su un motore di ricerca per telefono e generalità), si potrà consegnare un sintetico foglio-informazioni che spiega le “regole della casa”, fra cui la questione degli onorari. Fantasia e stile personale poi, una volta che ci si impadronisce di queste tecniche di comunicazione, saranno le chiavi per migliorare sempre e scoprire modi per distinguersi dai colleghi, cosa alla base di un “marketing” di successo (aborrisco le proposte di siti, poster, brochure, newsletter o fogli informazione standardizzati, quelli tutti uguali e “personalizzati” con il nome del dentista: sono l’esatto contrario del “marketing”).

Con le due tecniche indicate (“script” telefonico + sequenza di azioni al ricevimento), si dovrebbe aver ottenuto la “scrematura” delle persone meno serie. Va anche detto però che non è raro per un professionista accettare un possibile nuovo cliente anche se c’è qualcosa che magari “non quadra” fin da subito, pensando magari che pur di trovare una nuova fonte di ricavi qualche rischio lo si possa correre. Ma questo è un altro discorso.

Tornando alle procedure, l’importante è che, se si è in grado di definirne una, la si rispetti senza deroghe. Chi avrà la pazienza di farlo, si accorgerà che le “rogne” salteranno fuori pressoché invariabilmente ogni volta che la procedura stabilità sarà stata derogata.

Allego, a titolo di puro esempio e a corredo di quanto qui scritto, un diagramma di flusso della prima parte di quello che chiamo il “procedimento di visita”, dal quale si può trarre un concreto esempio di creazione di una procedura. Il diagramma è del 2001, andrebbe aggiornato, ma per capire il tipo di strumento da crearsi va bene. Le sigle in grassetto accanto alle “tappe” del percorso di visita sono riferite ai moduli o alle fraseologie in uso nello studio. Si noti che nel diagramma esiste in più momenti una struttura comportamentale del tipo “se…allora”: questa è la sostanza della procedura. “. (cliccare sulla miniatura per vedere l’immagine)

Dentisti e Internet: serve per trovare nuovi clienti?

In questo post, pubblico mettendole insieme due mie risposte ad utenti del forum Odontoline.it, di cui modero la sezione “Gestione dello studio”, in un frequentatissimo “topic” (ben 177 risposte!). La prima parte presenta una tabella, che nelle mie intenzioni dovrebbe servire come check-list utile a semplificare la riflessione, sempre che si abbia già o si pensi di avere in futuro un sito Internet, rispetto ai “contenuti” che possono o meno essere presenti, e per la loro collocazione. Gli elementi indicati sono il riassunto, aggiustato da me, dei “contenuti” indicati dai dentisti che hanno partecipato alla discussione come più o meno desiderabili od opportuni.

La seconda parte invece è una mia riflessione, molto personale, di tipo generale e riferita alla “strategia” con la quale cercare di utilizzare Internet per ottenere nuovi clienti.

PRIMA PARTE

Da buon ragioniere che vede le cose del mondo disposte in righe e colonne, ho provato a fare una lista degli argomenti via via presentati e mi è venuta in mente la tabellina che allego. Gli elementi sono quelli che mi sono sembrati emergere dai post. Le altre colonne potrebbero servire per decidere se dare spazio ai vari elementi o meno e per posizionare nel sito (e nell’impegno realizzativo), dandogli un “peso”, gli stessi. Ovviamente ognuno può aggiungere, togliere, modificare elementi e modo di classificarli, questo è un primo suggerimento che mi auguro possa piacere.

La colonna “Presenza SI/NO” si spiega da sola. La “% percentuale di spazio nel sito” intende essere uno strumento per orientarsi nel dosaggio dei vari elementi, e l’ultima, la “Priorità”, potrebbe servire per decidere in che posizione e con quale visibilità/usabilità fare apparire l’elemento:

IMMAGINE_DISCUSSIONE_SITO

SECONDA PARTE

Mi permetto di esporre alcune mie considerazioni, in relazione ai temi trattati. Premetto che mi sono occupato di relazione fra il dentista e la sua clientela dagli anni 90, pubblicando con Masson due volumi (1995 e 2001, il secondo corredato di esaustivi diagrammi di flusso per visualizzare quei processi). Ovviamente non sono entrato nel merito e nella sostanza del rapporto, che riguarda esclusivamente il medico e il paziente, dedicando le mie pagine alle sole modalità organizzative e di efficace presentazione scritta di quanto si intende comunicare. Quanto segue si ricollega quindi ai principi e alle teorie ivi espresse.

Se fossi un dentista, penserei in primo luogo ad un sito Internet ad uso della clientela esistente. Questo perché “I pazienti in cura e in richiamo sono la migliore fonte di nuovi pazienti, occorre quindi esercitare le opportune azioni e ripeterle nel tempo” (1995). Insomma, l’idea è che il famoso “passa-parola” deve essere governato, cosa assolutamente fattibile. Come primo passo, andrei a vedere il mio archivio pazienti per scoprire di quanti pazienti ho l’email e mi attrezzerei per recuperare questo dato dai nuovi arrivi, unitamente al consenso di usarla per le mie comunicazioni. E’ l’archivio (informatico) della clientela il punto di partenza obbligato di ogni operazione di potenziamento della clientela, un capitale spesso sottovalutato (anche dai programmi “gestionali”). Perché l’email? Se faccio il sito e non informo, tempestivamente e continuamente, le persone potenzialmente più interessate, rischio di ottenere poco, dal momento che, è cosa risaputa, per “lanciare” un sito (rectius, per ottenere risultati concreti) sulla base dei soli motori di ricerca ci vogliono anni. L’alternativa all’email può essere il cellulare, per mandare SMS, ma è meglio l’email.

Pensando alla clientela, il sito dovrebbe poter offrire servizi utili, in sostanza aprire un canale di comunicazione “ad alta frequentazione” con il cliente dandogli informazioni sulla sua situazione. In pratica un accesso limitato al database dello studio, per quanto riguarda appuntamenti, pagamenti, documenti (referti, richiami o altro). Non so se esistono già “gestionali” (le virgolette le uso perché quelli che conosco di gestionale hanno poco) in grado i offrire ai clienti questo accesso limitato via Web, vedo che, per esempio, quasi tutti i programmi dei commercialisti lo consentono. E’ chiaro che l’invito ad usufruire di questo possibile accesso andrebbe propagandato, appunto via email, e nella comunicazione fissa e verbale di studio. E’ chiaro anche che una volta che il cliente decide di usufruire del servizio, nel canale si potranno veicolare contenuti generali, dalle ferie, variazioni di orario, nuove tecnologie, partecipazione a corsi, casi risolti e quant’altro. In sintesi, si dovrebbe puntare, per sfruttare Internet nel lavoro, a creare in primo luogo una relazione, meglio una “community”. C’è da lavorare.

A contorno di quanto ho scritto, qualora mi accorgessi che ho poche email potrei attivare un richiamo telefonico contattando i pazienti cui manca il dato, per spiegargli cosa ho in mente di fare e chiederlo. La cosa, per inciso, avrebbe un notevole impatto relazionale, darebbe tantissime informazioni a chi chiama e porterebbe certamente, a brevissimo, nuovo lavoro in studio a seguito di quanto certamente ci si direbbe: pazienti “titubanti” rispetto a una proposta di cura fatta a suo tempo, pazienti che si sono “dimenticati” del dottore, pazienti magari con qualche lamentela da tirar fuori in quella sede più “intima” ai quali così poter dare rassicurazioni e fiducia.

Veniamo al sito pensato per trovare nuovi pazienti, che per quanto scritto per me sarebbe una seconda opzione, da implementare magari dopo aver fatto qualche passo significativo con la prima. Qui mi tocca tirare in ballo qualche “teoria della vendita”, parola questa che non mi piace e che non ha nulla a che fare con una professione, ma lo faccio per non farla troppo lunga. Una di queste “teorie” sostiene che la vendita è un processo per fasi (chi dice quattro, chi sette), e che non si può passare alla successiva se non si è esaurita, con successo, la precedente. Ora, dalla vista a un sito, comunque confezionato, non può scaturire il versamento dell’acconto per fare delle cure. Le vostre prestazioni non si possono eseguire “a distanza”, al più, e questo dovrebbe essere l’unico obiettivo perseguito, viene fuori una telefonata (o un’email) per informarsi. Detto ciò, io cercherei di evitare di mettere nel sito cose che vanno oltre, ridondanti, e investirei per raggiungere l’obiettivo descritto. Io mi focalizzerei di più sulle fasi iniziali del rapporto, visita e diagnosi (quindi valorizzare l’accesso e l’approccio ai problemi), piuttosto che sui trattamenti, cosa che mi pare finora poco praticata nei siti dei dentisti. Ma io non sono un dentista…

Il seguente modulo può essere utilizzato per mandare messaggi privati all’autore (invece, per lasciare un commento visibile agli utenti del Blog usa le funzionalità sotto l’articolo):

Dentista, yes You can: lavorare e guadagnare mentre altri chiudono

Pubblico il testo della “prolusione del Relatore” al secondo “Closed meeting”, tenuto nel mese di Maggio 2013, riservato ai già partecipanti alle edizioni dal 2006 al 2012 del “Corso pratico di amministrazione e management per l’Odontoiatra”.

Parole chiave: domanda; pletora; PDR; ISTAT; perdenti; scontento; vincenti; profitto; innovazione; tariffe; amministrazione.

Riassunto: la “crisi” non riguarda tutti i dentisti, colpisce i professionisti obsoleti, incompleti o con un atteggiamento utilitarista verso l’attività. I pazienti da loro “persi” stanno cercando nuovi dentisti, e questa migrazione sta portando più occasioni di lavoro in molti studi, quelli con i titolari che investono in aggiornamento e capaci di innovare le procedure operative e le modalità di relazione con la clientela. I dentisti in crescita hanno però di fronte gravi problemi di costi, monetari e non monetari, che non tutti sanno affrontare con successo. Per risolvere i problemi si deve partire da una esatta conoscenza della propria realtà professionale ed economica, per avere la quale il dentista si deve dedicare in modo personale, continuo e approfondito all’analisi dei processi operativi e all’amministrazione dell’attività. Il tempo che serve per queste operazioni, lo si può recuperare cominciando a “tagliare” prestazioni e pazienti che non portano guadagni né altro allo studio, che di solito sono più di quanto si possa immaginare.

1. Lo scenario economico

La “forza economica” dei dentisti risiede nell’irriducibilità della domanda di prestazioni da parte del pubblico: non rimarranno mai senza lavoro (e in un Paese con più di sessanta milioni di abitanti, l’Italia, c’è da attendersi che questo sia anche abbondante). Infatti, quando mancano i soldi il consumatore può decidere di rinunciare per sempre a certi beni, ad esempio l’automobile perché può spostarsi in altro modo. Può anche rinunciare a fare una causa o a pagare le tasse, lasciando senza incarichi avvocati e commercialisti. Può convivere con l’ipertensione o il diabete senza sapere di soffrirne, mancando così di rivolgersi al medico, oppure, se lo sa, decidere di autocurarsi. Non potrà mai però rinunciare alle cure del dentista, ma solo rinviarle nel tempo: prima o poi ci dovrà andare perché l’autoterapia non è praticabile. La sua decisione di accedere a cure dentistiche riguarderà quindi la scelta del “quando” e del “dove” (in quale studio), mai fra “cure si  ̶  cure no”.

Molti pensano che ci sono difficoltà perché “la gente è senza soldi” e “ci sono troppi dentisti” (la cosiddetta “Pletora”). E’ vero che la riduzione di potere di acquisto portata dalla crisi, aumenterà il numero delle persone con una sfasatura fra necessità terapeutiche e possibilità di spendere, ma per i dentisti queste situazioni non sono novità, perché hanno da sempre affrontato le richieste dei pazienti modulando le proposte e gestendo pagamenti dilazionati. E’ anche vero che non tutti sono “senza soldi” e che, in ogni caso, non si potrà risolvere questa situazione abbassando i prezzi senza prima sapere quanto costa realmente eseguire le prestazioni, perché qualora si lavorasse in perdita il fallimento sarebbe assicurato.

Ritengo che si possa guardare alla “Pletora” in modo nuovo. I dati Istat fanno vedere che nelle Regioni dove ci sono più dentisti, è più alto il numero dei cittadini che accedono alle cure e più elevata è la loro spesa media a livello di nucleo familiare e quindi anche la complessiva. Il contrario accade invece nelle Regioni dove per ogni dentista c’è un più alto numero di residenti. La concentrazione di dentisti in una zona, a mio avviso, è il miglior sistema per diffondere di più l’Odontoiatria fra la popolazione, per aumentare l’accesso e la parte di reddito devoluta alle cure. Il motivo è facilmente comprensibile, ed è l’unico caso in cui si può parlare in senso proprio di marketing odontoiatrico, e precisamente in riferimento alla distribuzione del servizio (uno dei quattro elementi del marketing-mix). Un servizio si acquista di più quando è distribuito capillarmente. La gente si reca più facilmente dal dentista se lo trova sotto casa. Ho infine motivo di pensare, a seguito di numerose osservazioni che ho fatto negli anni, che una forte concorrenza fra dentisti spinge alcuni di loro a competere sulla qualità della cura e del rapporto, cosa che innalza il livello medio del servizio offerto in una certa zona, a beneficio della collettività.

Il vero rischio per i dentisti di un Paese è la “fuga dei capitali”, cioè un massiccio ricorso della popolazione a professionisti di altre nazioni, magari agevolata dalla maggiore facilità di comunicare (Internet) e di spostarsi (voli low-cost). Rischio che appare più temuto che reale, dal momento che, tanto per esemplificare, i dentisti di Croazia, Romania, Slovenia e Ungheria, sommati dovrebbero essere circa 24000 (il condizionale è d’obbligo, dal momento che non ho trovato dati più aggiornati di questi, che sono del 2008, fonte CED-Council of European Dentists) e servono una popolazione complessiva di circa quarantasei milioni di abitanti. Hanno dunque un PDR (Population to Dentist Ratio) vicino a quello considerato ottimale dall’OMS, cioè 2000. Quale capacità produttiva libera potrà mai rimanere loro per curare, oltre ai connazionali, non solo gli Italiani ma anche i cittadini di quei paesi europei pure soggetti al fenomeno del “turismo odontoiatrico”? Inoltre, il differenziale sulle tariffe, al momento a loro favore, con ogni probabilità tenderà nel tempo ad essere meno pronunciato e il fenomeno già si coglie osservando su Internet i loro tariffari.

A dispetto dell’ottimistica visione appena delineata, su vari mezzi di informazione italiani, da tempo e particolarmente nelle ultime settimane, si scrive di una tendenza ad un generalizzato “calo” di pubblico negli studi, e naturalmente dell’incasso. Personalmente ho dei dubbi sulla piena veridicità di queste notizie. Le cose, almeno fino al 2011, sono andate diversamente.

La spesa delle famiglie per il dentista, secondo l’Istat, ha un andamento “altalenante”. Pubblico una tabella con la spesa mensile media per famiglia (quelle in cui almeno un membro ha sostenuto la spesa nel mese) e i totali annuali. Il livello della spesa totale risente del numero di famiglie che ricorre effettivamente alle cure (rectius che sostiene la spesa) e del livello dei prezzi praticati dai dentisti. Come spesa complessiva, il 2006 è stato l’anno più “basso” dal 2001 (molto più basso! E la “crisi” non era iniziata), seguito da un 2007 record. L’osservazione di questi dati rinforza l’idea, espressa prima, che i pazienti possono solo rinviare le cure, ma non rinunciare: in sintesi, a uno o più periodi “bassi” segue per forza un periodo “alto”. Clicca sulla seguente miniatura per leggere la tabella:

Dati_Istat_2013

 2. TipoIogie di “dentisti in crisi”

Da queste premesse, unendovi le osservazioni di chi come me è “sul campo”, e in particolare del fatto che ci sono studi, e in base a mie osservazioni dirette nemmeno pochi, che vedono aumentare i loro clienti e gli incassi, si dovrebbe concludere che non è realistico parlare di crisi generalizzata, cioè per tutti i dentisti: solo una parte, in modo più o meno importante, è in crisi. Di questa parte, al fine di comprendere meglio le cause della situazione e le possibili reazioni, si possono, a mio modo di vedere, distinguere tre tipologie di “dentista in crisi”. Una, che chiamerò gli “Obsoleti”, è quella cui difetta la base per riuscire a sopravvivere in un ambiente socio-economico turbolento e ultra-competitivo come l’attuale: la capacità di apprendere continuamente cose nuove. Penso in particolare all’informatica e allo sviluppo della tecnologia. Questi dentisti dovrebbero trovare la forza di rimettersi a studiare, contrastando quello che si può definire analfabetismo di ritorno. Altrimenti, hanno pochissime o nulle speranze di riprendersi.

Una seconda tipologia, che chiamerò gli “Incompleti”, è lacunosa nella gestione delle operazioni cliniche, o in quella organizzativa, relazionale o nell’amministrazione. Gli errori si pagano sempre cari quando c’è tanta concorrenza, e recuperarli costa grandi sforzi e molto tempo, cosa comunque fattibile se non si è troppo in là con gli anni.

La terza tipologia, che chiamerò gli “Utilitaristi”, è quella che non ha sacrificato tempo e guadagni all’indispensabile aggiornamento clinico, tecnologico, strutturale, relazionale e amministrativo, preferendo devolvere quelle risorse a destinazioni private. Ha perciò via via perduto attrattività nei confronti del suo pubblico, per assenza di innovazione. Per rifarsi, dovrebbe investire intensivamente nei prossimi anni, purché abbia conservato sufficienti mezzi per questo scopo. Di quest’ultima categoria c’è una particolare variante, quella che non ha capito per tempo che l’epopea del “nero” è sepolta, e si ritrova ad avere un’attività che magari fa ancora vivere il suo titolare ma che non può, a causa della mancanza di fondi alla luce del sole, investire per il suo sviluppo. Inoltre potrebbe patire le conseguenze dell’aura di discredito che oggi pare circondi chi è “in odore” di evasione, oltre a quelle collegate ad eventuali, ma sempre più probabili, controlli fiscali.

Le tre tipologie hanno qualcosa in comune: non si sono accorte per tempo dell’emergere dei cambiamenti nella professione, nella società e nella fiscalità. In sintesi, pagano la mancanza di una visione anticipatrice, che non è un dono del Cielo, ma il frutto del dedicare tempo ad osservare ciò che accade e a sviluppare compiuti pensieri, della voglia di mettersi in discussione e della continua applicazione nella ricerca di soluzioni.

Parte degli studi di queste tre “tipologie” non ce la faranno a reggere le difficoltà dell’economia e, plausibilmente a medio termine, chiuderanno i battenti “liberando” pazienti per i colleghi (un dato, tutto da interpretare, sul quale iniziare a riflettere è la riduzione di oltre 4000 utenze di telefonia fissa dal novembre 2011 a maggio 2013, rilevabile dalle Pagine Gialle, categoria “Dentisti medici chirurghi”). Altra cosa in comune, potrebbe essere la disponibilità del tempo lasciato “vuoto” dal deflusso di pazienti: grande fortuna nei momenti difficili, perché può essere usato per aggiornarsi, pensare e sperimentare soluzioni.

3. Quali studi stanno crescendo

Intanto, da questi “dentisti in crisi” stanno, e non da oggi, defluendo pazienti che cercano un’offerta migliore. La prova che ci sia una non trascurabile quantità di pazienti che sta cercando nuove risposte, la si può trovare nel rapido successo di studi di recente apertura, anche organizzati in “reti”, che hanno sfruttato la liberalizzazione della pubblicità sanitaria per caratterizzarsi in senso molto commerciale, che chiamerò “Innovatori” (e in quanto tali, forse non ancora del tutto coscienti dei rischi connessi con queste nuove modalità di operare). Il fenomeno si vede meglio nelle grandi città: chi le vive o le visita avrà certamente notato dei negozi che sono diventati studi dentistici e tanta pubblicità il cui messaggio, nella maggior parte dei casi, è quello del prezzo basso e della “visita gratis” (a proposito, si sa che ci sono limitazioni fiscali alla deducibilità delle spese connesse con queste prestazioni gratuite?). Si può dire che queste nuove modalità di esercitare e comunicare la professione, accettabili o criticabili che siano, sono comunque riuscite a fare emergere una domanda latente che, evidentemente, aspirava a “trovare un altro dentista” (lo si potrebbe chiamare scontento odontoiatrico, a mio avviso un sentimento piuttosto diffuso), che si è manifestata in forze quando qualcuno gli ha spianato la strada, a colpi di marketing (rectius di pubblicità), per farla sedere sulla poltrona del “preventivo” (e magari del connesso finanziamento).

Sta andando bene anche agli studi monoprofessionali e associati tradizionali più qualificati e organizzati, che sono tali perché i loro titolari hanno da tempo investito nell’aggiornamento culturale, tecnologico, strutturale e amministrativo (li chiamerò per questo gli “Investitori”). L’impegno di questi professionisti si è tradotto in maggiore autorevolezza e credibilità nel proporre prestazioni nel modo, nel tempo e al prezzo giusto, e in un’operatività a basso tasso di errori. Sono per questo riusciti a costruire fiducia e buona reputazione, con le quali si è attivato un “passa-parola” efficace e capace di selezionare la clientela migliore, facendo leva sul bisogno del pubblico di migliori risposte da parte degli Odontoiatri, lo scontento, sopra evidenziato. Questo ovviamente a scapito degli studi “perdenti”.

4. I problemi da affrontare

Il primo è forse quello più percepito, e a quanto vedo nei dati dei miei clienti particolarmente negli studi di più grande dimensione: un margine di profitto dell’attività che, quando lasciato a se stesso, tende ad appiattirsi sullo zero. Il problema ha cause oggettive, identificabili nei costi estremi, fra cui la tassazione, che oggi caratterizzano sia l’attività del dentista, molto complessa e di grande responsabilità, sia, come per tutti, la sua vita privata. Non sempre i dentisti riescono a “scaricare” completamente sui prezzi delle loro prestazioni questi costi, e da qui la proliferazione di prestazioni a margine nullo o negativo che si rilevano in quasi tutti gli studi. Il guaio è: se manca profitto da poter reinvestire nell’attività, l’organizzazione si deteriora, l’aggiornamento rallenta, la tecnologia non si può rinnovare, il titolare si indebita. In sintesi la crescita si ferma e l’attività si contrae in una spirale senza fine, fino a rischiare di entrare nel novero dei “perdenti”. Se, d’altro canto, mancano i mezzi per sostenere il tenore di vita che si desidera, si creano conseguenze che possono portare ad esiti simili per altre vie. Forse, è proprio la ricerca di un giusto equilibrio fra queste due esigenze, cioè conciliare la destinazione delle risorse disponibili fra l’attività e il “privato”, la scelta gestionale più difficile. Il problema dei costi eccessivi dunque è grosso, ma è quello che, per fortuna, si può affrontare con più mezzi e soprattutto con buone probabilità di risolvere. E su questo tornerò oltre.

Ci sono invece altri problemi, di ben più complessa e incerta gestione, capaci, a mio avviso, di fare anche più danni del basso guadagno. Uno è la difficile relazione con una parte del pubblico, in tendenziale crescita, nevrotica ed emotivamente insondabile, con il conseguente emergere di danni potenziali astrattamente infiniti (il paziente stalker), per i quali non esiste assicurazione capace di rispondere. L’altro, l’inaffidabilità di un “fattore umano”, collaboratori e dipendenti, in troppi casi più interessato a sapere come passerà la serata che a contribuire con energia e creatività al miglior andamento delle operazioni di studio. Fenomeno che, in un’attività labour intensive e a bassa produttività com’è lo studio dentistico, costituisce un freno alla crescita, se non un muro invalicabile, ed è causa di inefficienza economica cioè ancora più costi.

5. Trovare soluzioni

Gli ultimi due problemi descritti sono pressoché irrisolvibili in modo diretto da parte del professionista, conviene perciò lavorare sul primo, il basso o nullo profitto. Qualora si ottenga un giusto guadagno, che a mio avviso non dovrebbe mai scendere sotto il 50-60% del ricavo (la somma dei prezzi delle prestazioni eseguite), non solo si remunerano tutti i costi, che vanno considerati inclusivi di uno stipendio per il titolare, della sua contribuzione e tassazione, ma si creano riserve di utile, che si trasformano sempre in capacità di investire senza remore e in maggiore sicurezza nei comportamenti. Dunque più competitività, e arrivano i pazienti, e più scioltezza nel chiedere le giuste parcelle, e si fanno i guadagni. Avendo profitto, ci si potrà anche permettere di dedicare risorse per intercettare il paziente rischioso (e anche quello che non paga), evitando di iniziare la relazione, e di licenziare il collaboratore, o magari il socio, fannullone, distruttore o semplicemente antipatico.

Come fare? Certamente, chi non rimarrà attivo nella ricerca di soluzioni andrà fuorigioco. E’ invece del tutto plausibile pensare che le “mosse” efficaci possano prendere forma a seguito di un investimento di tempo, purché non episodico, nell’analisi dei processi operativi. In primo luogo quelli che riguardano l’avviamento e la manutenzione del rapporto con un paziente, analisi da farsi alla luce di un onesto giudizio sui propri punti di forza e di debolezza professionali, su ciò che si sa e si vuole fare e su ciò che invece non si sa. Lo scopo è arrivare a produrre solo prestazioni eccellenti, cioè pianificate e “sotto controllo” in tutte le loro fasi. Altro tempo va dedicato al controllo economico continuo, nelle sue parti monetarie, economiche e fiscali, dotandosi di strumenti informatici adatti, valida formazione e consulenza di prim’ordine: la “sprovvedutezza” in questo aspetto garantirà la dispersione dei propri sforzi e l’atterraggio nel campo dei “perdenti”. Questo miglioramento amministrativo, infine, sarà anche un valido “scudo” nelle eventuali attività ispettive degli organi tributari.

Da questo investimento di tempo scaturirà una nuova consapevolezza: delle proprie capacità, delle esigenze formative e tecnologiche su cui spendere, del proprio valore. E, prevedibilmente, dei propri limiti: si dovrebbe evitare di assumere incarichi che non si è certi di saper portare a termine con pieno successo, e non si dovrebbe accettare di lavorare quando una perdita si profila all’orizzonte. L’esito di questo percorso, che non è detto debba essere lungo e nemmeno tanto difficile, dovrebbe produrre come minimo due utili risultati: uno è la maggior sicurezza nel sostenere tariffe adeguate all’odontoiatria evoluta che si tende generalmente oggi a praticare (le basse tariffe, infatti, si sposano con un’Odontoiatria di livello più modesto, ma per rendere, oggi come un tempo, si dovrebbero anche accompagnare a un bassissimo livello di costi fissi e tassazione, condizioni ora introvabili). L’altro è la più facile produzione di valide idee per innovare costantemente il proprio agire, cosa indispensabile perché mai come ora chi si ferma è perduto.

6. Trovare il tempo per risolvere i problemi

Per molti dentisti, il problema è proprio trovare questo tempo, si è spesso convinti che convenga fare più prestazioni che si può, piuttosto che progettare e pianificare. L’esperienza di otto anni del “Corso pratico”, concretizzata nei dati che i partecipanti raccolgono ed elaborano con i software ricevuti, ha evidenziato in molti casi che la maggior parte delle prestazioni eseguite in uno studio pluribranca rende poco o nulla, che tantissime di queste fanno perdere e “rubano” margine alle prestazioni più redditizie, che il profitto annuale è dato dal 20% circa dei pazienti, che se il titolare non ficca il naso tutti i giorni nei conti delle entrate e delle uscite, e sapendo bene come fare, perde i soldi o glieli portano via, che se non si pianifica tutti i giorni la fiscalità tanto denaro viene speso in tasse anziché per la crescita e il futuro. Studi con queste caratteristiche, producono inevitabilmente, oltre al titolare, pazienti scontenti a causa di rapporti frettolosi perché bisogna correre, e magari si perdono informazioni preziose per la cura e per il denaro, di cattiva relazione perché sentendo di dare più di quello che si riceve non ci si concede del tutto, e il cliente si secca, di prestazioni povere perché si deve risparmiare, e il paziente è insoddisfatto (s’arrabbia, ma è difficile che ve lo dica). Se non si spezza la catena dello scontento, prima o poi si precipita fra i “perdenti”, magari accorgendosene quando è tardi.

Per trovare questo tempo dunque, servono informazioni precise che consentano di scoprire quella parte del lavoro che crea perdite, rappresentata da quei pazienti i quali, oltre al danno economico, non portano null’altro allo studio, e dalle prestazioni in perdita sistematica, rilevabili in quasi tutti gli studi. I primi vanno eliminati, e possibilmente in via preventiva, alle seconde vanno subito aumentati i prezzi. Questa attività di selezione, unita al continuo e preciso controllo sui flussi finanziari e ad una efficace pianificazione del risparmio fiscale, possibile in gran parte degli studi, consentirà immediatamente di guadagnare di più e lavorare meglio e, nel medio periodo, di aumentare la competitività rispetto ai colleghi e la credibilità verso i pazienti, e con quest’ultima sarà sempre più facile sostenere prezzi remunerativi per le prestazioni e farseli pagare.

Mi auguro di aver dato, con questa lunga prolusione, la reale portata della proposta che in otto anni di lavoro si è concretizzata nelle sette edizioni del “Corso pratico di amministrazione e management” e nei suoi unici strumenti software. Ringrazio per la vostra fiducia, per il vostro impegno e per l’attenzione.

Il conto del dentista: come farlo “digerire” meglio al paziente

Come sempre, dal Forum “Gestione dello studio” di Odontoline.it. di cui sono moderatore, arrivano interessanti elementi di riflessione. Un recentissimo topic verte sulla questione della “vestizione” della fattura, in base ad una percezione per cui farla con delle voci troppo sintetiche, il nome della prestazione, avrebbe meno impatto sul paziente che farla con delle voci “esplose”, le fasi di lavoro della prestazione. L’idea, grossolanamente, è che più voci si mettono nella fattura più questa possa sembrare meno “pesante” e dunque più accettabile al paziente. Le opinioni, ovviamente, sono molto diverse, c’è chi dice si e chi no. Per quanto mi riguarda, ho postato, fra gli altri, il seguente intervento:

“E’ bene sapere che per quanto riguarda le fatture non esiste molta libertà “fiscale” rispetto alle voci utilizzabili, anzi. Per capirsi, se in una fattura venissero scritte voci del tipo “Tempo del dottore” o “Costo dei materiali”, e forse anche quelle voci iperdettagliate, in caso di controllo fiscale questo potrebbe portare a problemi, e le regole sulla fatturazione sono piuttosto rognose.

La fattura in pratica conviene farla in modo conforme alle varie specifiche che ADE ha nel tempo rese note. Informo con l’occasione che di questo darò ampio conto nel corso del 6/10 a Roma, come si può vedere nel rinnovato programma: Programma Gestione Roma.

Detto questo, per cambiare, si spera in meglio, la percezione del “conto del dentista” del paziente, bisognerà dunque lavorare su documenti diversi dalla fattura, probabilmente i “preventivi” o similari.

Quando io penso a quella che chiamo “Innovazione nella tariffazione”, penso principalmente a due cose: 1) il rapporto fra i prezzi delle varie prestazioni; 2) il contenuto della tariffa. La prima cosa, significa domandarsi se, tanto per capirsi, anzichè proporre l’otturazione a 100 e la corona a 900, non sia meglio dare la prima a 300 e la seconda a 700.

La seconda cosa significa comunicare, invece del prezzo complessivo di una prestazione (che mi sembra essere l’argomento principale di questo topic), le sue “componenti”, per sensibilizzare il paziente rispetto al reale valore di quanto gli si fa. Un esempio, ma non sarà l’unico, di questo approccio potrebbe essere suddividere la prestazione in: 1) prestazione professionale vera e propria (il compenso del dentista per la sua opera); 2) rimborso spese per i materiali e la protesi; 3) rimborso costi di studio (personale e c. fissi in genere); 4) rimborso spese di assicurazione (il concetto si potrebbe estendere anche ai rifacimenti); 5) rimborso spese per la sicurezza della seduta (decontaminazione, sicurezza elettrica ecc.). “.

Appuntamenti saltati: farseli pagare?

Su Odontoline.it, nel Forum “Gestione dello studio” di cui sono Moderatore, è stato aperto un topic relativo alla vexata quaestio della “penale” da chiedere al cliente in caso di “salto” dell’appuntamento senza o con troppo poco preavviso. Un iscritto al forum, chiedeva se esiste qualche norma in merito. I vari post succedutisi, hanno fatto vedere molti modi di affrontare la cosa, tutti però, almeno mi sembra, poco convinti rispetto alle posizioni più rigide: “Hai saltato, devi pagare”.

Prima ho consigliato di leggere bene gli articoli 33 e 34 del Decreto Legislativo 206 del 6/9/2005, il “Codice del consumo”, che parlano delle “clausole vessatorie”, quelle, per intendersi, che impongono contrattualmente degli oneri a carico del cliente che non sono controbilanciati da altrettanti oneri a carico del professionista (ad esempio, se fai firmare al cliente un contratto dove scrivi che se salta l’appuntamento deve pagare, e a tua volta non gli riconosci un rimborso se sei tu a spostare l’appuntamento, la prima è una clausola vessatoria). Ho quindi proposto una possibile soluzione, che mi sembra più elegante e che può avere il pregio di incentivare il vostro paziente a collaborare di più.

Si tratta di formulare il “preventivo”, che di fatto può essere considerato il contratto, con una impostazione del genere: detti A e B due prezzi per la medesima cura, dove A è più alto di B, scrivere una cosa del genere: “Il prezzo per le cure in preventivo è A, ma potrà essere B se alla fine delle cure il paziente avrà collaborato/sarà stato puntuale.”.

Un iscritto al forum ha suggerito di mettere A come tariffa normale, e B come scontata. Ho suggerito: “Perchè non mettere B tariffa normale, e A maggiorata?”.

L’idea per me non è nuova, l’ho già sperimentata nelle consulenze dirette agli studi e descritta nel mio libro “Gestione Extra-clinica dello studio odontoiatrico”, pubblicato nel 2001 da Masson. Si tratta di collegare il prezzo alla collaborazione, che può includere, oltre alla puntualità per gli appuntamenti, quella sui pagamenti concordati. La “collaborazione” non deve però essere un concetto astratto, ma un sistema ben definito e graduato, in modo da poter assicurare ai pazienti uniformità di trattamento.

A corredo di quest’ultima idea, allego un’immagine tratta dal libro citato, che è una “griglia” per la definizione della collaborazione e della sua graduazione in base a livelli che ogni studio dovrebbe definire, essendo le indicazioni scritte sull’immagine solo degli esempi.

Il “Modello della collaborazione” nel testo “Gestione extra-clinica dello studio odontoiatrico” di P. Bortolini, Masson 2001

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