Costo orario dello studio dentistico (5^ e ultima puntata): la trasformazione “magica” del denaro in tempo

 

[COSTO ORARIO DENTISTI]

Di Paolo Bortolini *

in questa ultima puntata della serie sul “costo orario” nello studio dentistico, si conoscerà una particolare formula (la “formula di Bortolini”), in grado di spiegare e simulare l’economia della singola prestazione e dell’intera attività. Un vero “modello economico” dell’attività odontoiatrica. Questa formula è stata scoperta e pubblicata dall’autore di questo articolo nel 2001.

Riassunto delle puntate precedenti

Nella prima puntata si è definito il “costo orario” (CO) come una tecnica contabile per ripartire in modo equo alcuni particolari costi dello studio sulle singole prestazioni già eseguite. E’ stato quindi mostrato che avere un “costo orario” alto o basso non fa differenza sul piano del risultato economico complessivo dell’attività, che rimane lo stesso. Nella seconda puntata si è definito quale “tempo” sia da utilizzare nei calcoli del “costo orario”  e si è spiegato perché se un paziente “salta” l’appuntamento non è possibile caricargli alcun costo (chi sostiene che la “poltrona ferma” produce costi non sa ciò che dice); nella terza puntata si è passati a classificare i costi da utilizzare per il calcolo, dando nuove visioni e correggendo le tante imprecisioni portate sul punto da altri autori; nella quarta puntata si è passati ad esempi pratici di calcolo, mostrando quello corretto, bastato sul solo tempo, e quello distorto, da evitare, basato sull’orario di apertura e il numero di poltrone, e infine su come si deve stimare il “costo orario” per le prestazioni ancora da eseguire.

Vi è una diffusa convinzione secondo cui “spiegare l’economia ai medici è impossibile”. Ho sempre cercato, con alterni successi, di sfatarla. Un bel giorno, dopo anni di raccolta e analisi dei dati, un’applicazione della tecnica nota come “analisi del punto di pareggio” mi portò ad una scoperta importante: una particolare formula, cui detti il mio cognome. La formula spiegava l’economia ai medici perché trasformava i fatti economici in tempo, che è la sola e unica “capacità produttiva” del dentista, dal momento che, per il momento, “le poltrone” non hanno le mani per poter operare, come sembra credere qualcuno.

Un “modello economico” generale dell’odontoiatria

L’idea era chiara: anziché misurare in denaro il guadagno o la perdita di una prestazione eseguita o da eseguirsi, lo misuriamo in tempo. L’ispirazione a quella ricerca, coronata dalla scoperta di quella formula, veniva da uno dei miei primi clienti dentisti, che sosteneva: “per me, il tempo e il denaro sono la stessa cosa. Mi interessa guadagnare di più attraverso innovazioni organizzative, ma se le stesse mi danno più tempo libero, sono ugualmente contento.”. L’idea del mio cliente mi aveva affascinato e ispirato. In questo articolo presento per i suoi sommi capi il risultato ottenuto.

Dunque, normalmente si misura l’economia di una prestazione con il metro “Euro”: dal prezzo della stessa si sottraggono i costi che si ritiene ad essa associabili, vuoi in modo “diretto” che “indiretto”, e si ottiene un valore, sempre metro “Euro”, da giudicare. Una formulazione un po’ più raffinata di quella ora esposta, può essere la seguente (i dati sono puramente indicativi):

ULTIMA 1

Il risultato ottenuto, 10 €, dice meno di quanto invece potrei sapere convertendo il denaro in tempo. Come si fa? Appunto, con la “formula di Bortolini”. La formula in forma estesa è:

FORMULAESTESA

In forma “compatta” la “formula di Bortolini” è:

Margine di contribuzione/Costo orario = T.E.D.

Applicandola al nostro esempio, si ottiene, magicamente trasformando il denaro in tempo:

70  €. / 1 €. * = 70 minuti

* quando si lavora su una singola prestazione, per maggiore chiarezza si usa il “costo a minuto”, dato da “costo orario”/60

Il significato del T.E.D. può essere interpretato come il tempo che l’economia di una prestazione svolta in un certo studio consente di dedicare a quella prestazione senza rimetterci (pareggio). Se si impiega meno tempo del T.E.D. si guadagna, se invece ci si mette di più, si perde:

PRIMA TED

Il passaggio inverso, cioè dal tempo tornare agli Euro, si fa così:

(T.E.D. – Tempo effettivamente dedicato) x Costo a minuto = €. guadagnati/persi

Nel nostro esempio:

10 min. x 1 €. = 10 €.

Con la “formula di Bortolini”, noti i tempi esecutivi medi delle varie prestazioni, i consumi medi e il “costo orario”, è possibile testare la tenuta economica dei propri tariffari in un attimo. Ulteriori applicazioni della formula, praticamente senza limiti, si hanno utilizzandola per risolvere equazioni di primo grado riferite ai suoi singoli componenti. Ad esempio, si può stimare, dato il prezzo e noti i consumi e il costo orario, il prezzo da chiedere per avere un certo rendimento percentuale. Ad esempio, con i dati dell’esempio precedente e immaginando di testare l’ipotesi di delegare la prestazione a un collaboratore cui si offre il 25% del prezzo (25 €.), volendo continuare ad avere lo stesso rendimento percentuale di quando la si eseguiva in proprio (10% come da esempio precedente), lo sviluppo del calcolo è:

seconda ted

Un altro esempio applicativo della “formula di Bortolini” può riguardare la stima del tempo massimo dedicabile per restare all’interno di date condizioni economiche e non rimetterci, ad esempio, sempre con i dati dell’esempio iniziale:

terza ted

ovviamente, per far guadagnare lo studio il collaboratore dovrebbe eseguire la prestazione in un tempo inferiore ai 45 minuti, e per ogni minuto risparmiato, con i dati esemplificati, lo studio guadagnerà 1 €. Se ci mette di più di 45 minuti, lo studio ci rimette nella stessa maniera. Magicamente quindi, qui si ritorna dal tempo al denaro.

Per applicare il modello nel proprio studio

Le applicazioni della formula sono estensibili anche a interi piani di cura e all’intera attività, fino ad arrivare a costruire dei veri e propri modelli matematici su foglio elettronico che consentono di simulare gli effetti, in modo dettagliato, di ogni realizzata o solo progettata variazione dimensionale, tecnologica, relazionale dello studio. Chi fosse interessato all’applicazione della “formula di Bortolini” nel suo studio ha a disposizione due possibilità:

  • chiedere la speciale CONSULENZA (è richiesto il programma Microsoft Excel) inviando una email a paolobortolini@studiobortolini.com con oggetto: “Info formula”.
  • partecipare ai corsi del dottor Bortolinipartecipa ai miei corsi teorici e pratici.

A disposizione per approfondimenti anche a 0498962688. Grazie

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Costo orario dello studio dentistico (4^ puntata): e in pratica, come si fa?

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[COSTO ORARIO DENTISTI]

Di Paolo Bortolini *

In questa quarta puntata della serie sul “costo orario” nello studio dentistico, si userà quanto costruito nelle precedenti per mostrare in pratica i calcoli di base del “nostro”. Per ricevere notifica delle prossime uscite, mettere il “mi iscrivo” su questo Blog o il “mi piace” sulla  nostra pagina Facebook

 

Riassunto delle puntate precedenti

Nella prima puntata si sono messi in guardia i lettori verso la diffusa approssimazione che  caratterizza scritti che circolano su Internet, di solito opera di persone che non sono esperti contabili. E’ stato ripetutamente affermato che con “costo orario” (CO) va intesa una tecnica contabile per ripartire in modo equo alcuni particolari, e importanti, costi dello studio sulle singole prestazioni già eseguite, trattandosi quindi di una misurazione consuntiva e precisa. Poi, cosa da tenere sempre bene in mente, è stato mostrato che avere un “costo orario” alto o basso non fa differenza sul piano del risultato economico complessivo dell’attività; quindi, idee che inducono a ritenere che se faccio una prestazione in meno tempo “risparmio” qualcosa, sono da ritenersi puri parti della fantasia. Nella formulazione generale per il calcolo, si è poi detto che null’altro che i costi e il tempo deve entrare, a nulla rilevando oggetti e soggetti quali le poltrone o gli operatori. Anzi, vedendo alcune formulazioni di altri autori (peraltro si ripete non esperti contabili) proposte in rete, posso dire che seguendo quei consigli ci si troverà a sottostimare l’incidenza dei costi del tempo sul costo delle prestazioni, dunque in situazione di grave rischio per quanto riguarda la tenuta dei propri conti.

In questa puntata si mostrerà come si calcola il “costo orario” e come si può arrivare, ma con razionalità, ad una sua valutazione preventiva per formulare delle ipotesi del prezzo da chiedere per le prestazioni da eseguire in futuro.

 

Il “costo orario” è un valore sempre e solo collegato al tempo

Una volta individuati quelli che nella terza puntata sono stati chiamati i “costi di tempo” (chè il “costo orario” non è un calderone dove entra anche quello che si spende per la baby sitter dei figli), tali costi si devono, guarda caso, ancorare al tempo.

Un primo esempio si può fare ipotizzando che lo studio sia stato in grado di sapere quanti sono i suoi costi di tempo di un certo periodo, cosa più facile disponendo di una contabilità organizzata “per competenza” oltre a quella “per cassa”.

Appunto per esemplificare diciamo che in un certo mese tali costi siano 10.000 €.. Il calcolo del CO è immediato: note le ore che sono state dedicate dai vari operatori clinici alle prestazioni eseguite nel mese, che fissiamo a 200 h., 10.000 €. diviso 200 h. da 50 €.. Questo è il costo orario, cioè la quota dei “costi di tempo” che è stata assorbita da ogni singola ora effettivamente lavorata. Non servono altri sforzi.

Per chi proprio non ci crede alla questione che le poltrone è meglio lasciarle ferme dove stanno, cioè a fare niente se qualcuno non le utilizza per produrre prestazioni, mostrerò cosa si ottiene applicando una delle varie “teorie” che si leggono in rete.

Poniamo che poltrone siano due e che lo studio sia aperto 8 ore al giorno per venti giorni al mese (totale ore di apertura = 160 h.). Secondo alcuni autori, il CO si calcola dividendo i costi rilevanti per le ore di apertura e poi per il numero di poltrone. Nel nostro esempio, si tratterebbe di: 10.000 €./160 h. = 62,50 €.; 62,50 €./2 poltr. = 31,25 €.. Secondo questa teoria, anziché essere 50 €., il CO sarebbe 31,25 €.. Qui si capisce subito, rispetto al calcolo corretto come l’ho mostrato, che quando si usa il CO per ripartire i costi di tempo in modo equo fra le prestazioni già eseguite, ma anche se lo si usa per fare il prezzo di una prestazione ancora da eseguire, con quest’ultimo “metodo” si otterrà un costo della prestazione sottostimato, distorto. Potendo dunque avere notevoli danni da abbaglio.

Va capito che, dal punto di vista dell’analisi economica, le poltrone sono oggetti inerti, non producono ricavi, perché questi li producono solo gli operatori clinici, perciò il tempo che conta è solo quello dell’operatore (e degli operatori se sono più di uno). Un clinico può produrre ricavo senza aver bisogno della poltrona, ma solo del suo tempo: una visita ad un paziente la si può fare anche alla scrivania, e per questo chiedere un compenso. A nulla poi valgono dei “correttivi”, quali la stima di esoterici “indici di saturazione” delle poltrone o degli operatori, per correggere la distorsione che un sistema come quello basato sulla ripartizione sulle ore di apertura e sulle poltrone, anziché solo sulle ore effettivamente lavorate, comporta. Sono complicazioni che provocano inutili mal di testa e perdite di tempo. Lo scrive un ragioniere che ragiona e pubblica sul punto da “soli” 34 anni!

Sulle poltrone si possono casomai calcolare altri interessanti indici, ma non il CO. E si tratta di indici di comparazione: fra diversi studi, per lo stesso studio osservato in momenti temporali diversi. Ad esempio, il totale del valore dei beni strumentali diviso il numero di poltrone è un buon indice, chiamato “Investimento fisso medio per poltrona”.

Si veda il seguente esempio conclusivo con i costi orari calcolati con i CO ottenuti dai due sistemi illustrati negli esempi (il giusto è 50 €. eh!):

CONFRONTO METODI

La sottostima del costo orario causata dall’applicazione del metodo erroneo, fa credere di guadagnare di più del reale. La cosa può essere gratificante dal punto di vista psicologico, ma è un’evidente illusione e foriera di errori.

 

Il “costo orario” per fare i preventivi

C’è un solo e unico metodo razionale per stimare il CO da considerare per le prestazioni ancora da eseguire, questo:

a) in primo luogo, stimare quanti costi di tempo sono ancora da sostenere da oggi a fine anno; diciamo per semplicità altri 10.000 €.

b) poi, stimare la quantità di ore di produzione di tutti gli operatori clinici che ci si può ragionevolmente (e magari prudenzialmente) attendere da oggi a fine anno, diciamo per semplicità 150 h.;

c) dividere i costi di tempo ancora da sostenere per le ore di produzione previste del punto b), 10.000 €./150 h. = 67 €.. Questo sarà il CO da considerare quando si costruisce un prezzo preventivo o si lavora sul tariffario.

Una più elegante modalità di applicazione del metodo di stima che ho appena illustrato, risolvendo un’equazione, è questa:

  1. ammettendo che il CO di 50 €. che ho calcolato “a consuntivo” si conformasse bene al livello di prezzi che lo studio è in grado di praticare, diciamo che lo studio ci si rispecchiasse bene in quel CO;
  2. una semplice equazione di primo grado: 10.000 €./X = 50 €., mi dirà che da qui a fine anno per avere un CO uguale a quello che ho avuto finora, dovremo, titolare e collaboratori clinici, lavorare almeno per 10.000/50 = 200 ore. Il punto allora sarà: saremo in grado di schedulare (mettere in agenda) 200 ore dei clinici? Aprendo così la porta a tutta una serie di domande e risposte, profondamente innestate in quella che chiamiamo la gestione dello studio dentistico! Buon lavoro!

* dottore commercialista, consulente e formatore per la gestione delle attività economiche in odontoiatria. Tel. 0498962688. Clicca per le consulenze.  Clicca per i miei corsi.

La “lente” del MEF sull’Odontoiatria. Parte 2^: il “fatturato” dei dentisti italiani

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[FATTURATO DEI DENTISTI]

Di Paolo Bortolini *

In questa seconda parte del mio contributo alla interpretazione di questi dati MEF, mostro una elaborazione riferita al TOTALE DEGLI INCASSI E DEI RICAVI NAZIONALI dichiarati dalle tre forme giuridiche con cui viene esercitata l’attività degli studi odontoiatrici.

Da 13 anni nel sito del MEF (Ministero dell’economia), si pubblica annualmente una sintesi dei dati che ricava dalle dichiarazioni dei redditi cui sono abbinati gli “studi di settore”. Per quanto riguarda l’Odontoiatria, si tratta delle dichiarazioni cui è abbinato lo studio di settore per l’attività 86.23.00. Tali dati sono suddivisi fra tre “forme giuridiche” di esercizio:

  • le “Persone fisiche” (PF), quindi l’insieme dei professionisti inquadrati fiscalmente nel lavoro autonomo, che pagano l’Irpef;
  • le “Società di persone” (SP), forma che comprende al suo interno sia gli studi associati, inquadrati fiscalmente come lavoro autonomo, sia le s.a.s e le s.n.c., “commerciali” e “tra professionisti” inquadrate fiscalmente come imprese, i cui associati e i cui soci pagano l’Irpef “per trasparenza”;
  • infine le società di capitali (SC), in grandissima parte s.r.l., “commerciali” e “tra professionisti”.

Altre note ed “avvertenze” per l’interpretazione di questi dati, li si può leggere qui.

 

Vediamo intanto i numeri assoluti:

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Gli stessi identici dati annuali, in forma di grafico “a colonne”:

FATTURATO_ASSOLUTO GRAFICO

 

Infine, presento i dati sempre in forma tabellare, però ricalcolati in percentuale del totale annuale, cosa a mio avviso più significativa della precedente per quanto riguarda le possibili interpretazioni (si noti la “tenuta stagna” della forma SP, cioè, come già scritto, gli studi associati, e il “travaso” di fatturato dai dentisti PF alle SC, cosa che si potrebbe interpretare affermando che il fatturato perso nel tempo dalle PF è andato in mano a non dentisti):

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Analisi degli incassi nello studio dentistico: tre metodi facili facili

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Di Paolo Bortolini *

Una delle caratteristiche dell’esercizio privato della professione odontoiatrica è la presenza di un rapporto monetario diretto con il cliente, definito dall’alternarsi di addebiti per prestazioni eseguite e incassi.

 

Questo fatto sta all’origine di una buona parte delle attività extra-cliniche, prelevando numerose risorse di tempo e di organizzazione fra quelle disponibili in studio. Una buona informazione è certamente alla base delle azioni rivolte al miglioramento di questo rapporto, va quindi curata ed ampliata in ordine ad una sempre maggiore comprensione di quanto accade e, naturalmente, per avere la massima efficacia possibile nel realizzo di quanto eseguito. In questo articolo presento tre semplici ma efficaci modi di elaborazione di dati che, normalmente, sono sempre aggiornati e disponibili in ogni studio, chiamati:

  1. “Analisi del credito globale”;
  2. “Analisi della esigibilità del credito”;
  3. “Indice di attivismo nella gestione del credito”.

 

1) L’analisi del credito globale

Serve a misurare il credito totale dello studio, dato dalla differenza fra quanto è già stato addebitato ai pazienti, cioè i pagamenti attesi a seguito dell’esecuzione di prestazioni, e gli incassi effettivi ricevuti. Questo conteggio si deve fare sull’intero archivio dello studio, senza distinguere se i pazienti sono o meno in cura, da qui l’aggettivo di “globale”. Con i dati raccolti si calcola, per differenza, l’ammontare totale del credito, o “saldo”, cioè quanto lo studio avanza in termini assoluti, e anche un indice percentuale molto utile, che si può chiamare “Indice di efficacia della gestione degli incassi”, ottenuto dividendo il totale degli incassi con il totale degli addebiti. Un esempio di come impostare questo conteggio è dato nella seguente tabella:

INCASSI 1

L’apprezzamento dei risultati di questa analisi avviene: per il saldo valutandone a livello soggettivo l’ammontare; per l’indice, che sarà naturalmente quello medio dello studio, valutandone la misura rispetto a dei criteri obiettivi, ad esempio quelli espressi in questa griglia di valutazione, tratta dal mio libro “Gestione extra-clinica dello studio odontoiatrico”:

INCASSI 2

 

2) L’analisi della esigibilità del credito

Il secondo conteggio riprende gli stessi dati numerici dello schema precedente, sempre lavorando sull’intero archivio dello studio, suddividendoli in base ad alcune caratteristiche del rapporto con ogni paziente. Nell’esempio sono adoperate la presenza o meno di un appuntamento assegnato e la data di esecuzione delle cure, ma può essere ugualmente interessante l’impiego di ogni altro dato caratteristico del rapporto, reperibile fra quelli che definiscono la relazione di clientela, purché rivesta un utile significato per l’analista. La tabella che mostra questi conteggi può assumere questa forma:

INCASSI 3

Rispetto alla precedente tabella, con un’analisi di questo tipo si ricerca una lettura più fine della situazione. L’interpretazione dei risultati deve servire alla formulazione di ipotesi riguardo il grado presunto di esigibilità delle somme a credito, aspetto di estrema rilevanza soprattutto quando si sta vivendo una situazione lontana dall’ottimo per quanto riguarda il rapporto fra incassato ed eseguito, specie se sono in progetto azioni organizzate di riduzione del credito. Nell’esempio, l’interpretazione dei dati ipotizza che: i crediti dei pazienti con appuntamento e le cure eseguite negli ultimi 12 mesi dalla data dell’analisi sono considerati di più facile realizzo, il contrario per pazienti mancanti di appuntamento e per cure eseguite oltre gli ultimi 12 mesi. Questa lettura, per spiegarsi, è motivata, per quanto riguarda la presenza di appuntamento dal fatto che è più facile gestire finanziariamente un paziente che sta venendo in studio, per la data delle cure dalla anzianità del credito che, come è noto, più ci si allontana dal momento in cui è sorto più lo si considera meno esigibile e di valore reale inferiore al suo importo nominale.

 

3) L’indice di attivismo nella gestione del credito

E’ buona norma gestionale seguire con regolarità le singole “posizioni” finanziarie dei pazienti, non trascurando di esercitare qualche forma di intervento ogni volta si riscontrassero delle discrepanze fra ciò che ci si aspettava e la realtà. Non è difficile osservare per chi, come chi sta scrivendo questo articolo, opera negli studi da più di vent’anni che molte anomalie negli incassi derivano da mancanza di informazioni che, se presenti, porterebbero in modo tempestivo ad agire scoprendo che il più delle volte basta un semplice e cortese richiamo verbale al paziente per risolvere le situazioni. Ecco perché disporre di una misura di questo attivismo specifico può essere interessante per chi analizza la gestione di uno studio. La forma che questo conteggio può assumere è la seguente:

INCASSI 4

 

L’indice varia positivamente a partire da 0. Più è alto più ci si è dati da fare, con richiami verbali, telefonici o scritti, per stimolare i pazienti ad essere regolari. L’indicazione che se ne trae può essere molto utile per rendersi conto del proprio atteggiamento verso il problema, inferendone le cause in presenza di situazioni non buone.

Per approfondire questi argomenti, come per recepire graditissimi resoconti delle vostre esperienze in materia, la mia e-mail è sempre a vostra disposizione. Per approfondire e avere insegnamenti, software e materiali, l’ideale è considerare di partecipare ai miei corsi teorici e pratici.

 

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Costo orario dello studio dentistico (3^ puntata): fissi, variabili, diretti o indiretti? Ci vuole aria nuova!

[COSTO ORARIO DENTISTI]

Di Paolo Bortolini *

Ecco la terza puntata della serie sul “costo orario” nello studio dentistico. Per ricevere notifica delle prossime uscite, mettere il “mi iscrivo” su questo Blog o il “mi piace” sulla  nostra pagina Facebook

Riassunto delle puntate precedenti

Fatta un po’ di luce sulle idee non proprio precise che ancora circolano nel mondo dei dentisti, si è poi affermato che: 1) il “costo orario” è un puro espediente contabile per ripartire in modo equo i “costi fissi” sulle singole prestazioni già eseguite; 2) la sua formula generica è perciò “Costi fissi”/Tempo; 3) ha natura puramente consuntiva; 4) avercelo alto o basso nulla cambia sul risultato economico dello studio; 5) se si chiama “orario”, nulla avrà a che fare con le poltrone; 6) il tempo che si deve prendere come denominatore della formula generale è quello detto “dello studio” illustrato nella seconda puntata.

In questa puntata si discuterà sui costi da prendere a base del calcolo del “costo orario”.

Innanzitutto, si dovrebbe spiegare che cosa è un “costo”. I più probabilmente credono che un costo sia rappresentato da un esborso di denaro. Ma se questo soddisfa il ragionamento del “padre di famiglia”, non va bene per quello gestionale. Un costo è la misura monetaria della quantità impiegata di una risorsa in un processo produttivo. Risorse sono i beni e servizi utilizzati per lavorare, i capitali propri e di terzi utilizzati allo stesso scopo. In alcuni casi questa misura corrisponde all’esborso di denaro, in altri no. L’ammortamento è un costo annuale, ma l’esborso di denaro è avvenuto magari anni prima; un materiale di consumo utilizzato, può non essere ancora stato pagato, e via esemplificando. Non è alla portata di questi articoli spiegare la natura dei costi (e se non se ne capisce la natura è utopistico controllarli), cosa per cui rimando ai miei corsi. Detto ciò, da qui in avanti diamo per scontato che quando parliamo di costi…si sappia cosa stiamo maneggiando!

“Fissi e variabili”, “diretti e indiretti”: siamo sulla strada giusta?

Molti anni fa, e precisamente nel 2001, detti un’indicazione poi ripresa praticamente da tutti quelli che hanno scritto e scrivono sul punto, di considerare “fissi” tutti i costi diversi da: materiali odontoiatrici consumati (che è cosa diversa dagli “acquistati”), parcelle dei collaboratori per le prestazioni da loro eseguite sui pazienti del dentista loro committente, lavori di laboratorio consegnati. Era il 2001, e questa proposizione è contenuta a pagina 20 di un mio libro di testo. Questa indicazione era dovuta all’intento di agevolare al massimo l’impegno del dentista su questioni a lui di solito estranee, per risparmiargli i vari dubbi che possono sorgere quando ci si interroga sulla natura di un costo. Quei “costi fissi”, scrivevo in quel testo, erano infine da dividersi per il tempo dedicato alle prestazioni e il gioco era fatto: voilà il “costo orario”. E’ passato molto tempo e i dentisti sono diventati più bravi nella matematica dei loro costi, si usano di più i programmi informatici di calcolo. E’ ora quindi di fare un passo in avanti, di salire di livello. E di cambiare “aria”, cioè terminologia.

Un po’ di chiarezza però è bene prima farla, perché, come ho scritto nella prima puntata, troppi usano disinvoltamente e a sproposito i termini di costi “fissi”, “variabili”, “diretti” e “indiretti”. Qualcuno perfino sostiene che i costi “fissi” sarebbero quelli “indiretti”. Non è così. Le due distinzioni, fissi/variabili, diretti/indiretti, non sono nemmeno “parenti”.

La prima nasce e serve solo nell’ambito delle analisi “costo-volume-profitto”, note anche come analisi del “punto di pareggio” (break-even point). In sostanza, quella distinzione serve quando si vuole sapere quanto lavoro si deve fare per coprire i costi e cominciare a guadagnare. L’analisi di break-even si presta anche a molti altri interessanti utilizzi, di cui uno che ho messo a punto personalmente è particolarmente legato al “costo orario”, di cui dirò prossimamente. Sarà “fisso” quel costo che, pure variando in più o in meno le ore dedicate alla produzione di prestazioni resta, più o meno, uguale. Viceversa, sarà “variabile” quel costo che, se non si produce per niente… non c’è. In “soldoni”, fisso è quel costo che “scatta” anche quando lo studio è chiuso per ferie, es. un affitto, mentre variabile quello che, a studio inoperativo, non esiste.

Quando invece si parla di costi “diretti e indiretti”, si è nell’ambito dell’analisi di singoli “oggetti di costo”: se prima non dico a quale “oggetto di costo” sto cercando di “fare le pulci”, non posso sapere se un dato costo sarà “diretto” o “indiretto”. Il criterio per distinguerli, rispetto all’oggetto di costo, è il seguente: “diretto” è quel costo che posso assegnare subito, senza “se e ma” ad uno specifico oggetto (caso esemplare, la protesi o l’impianto che è costo tutto e solo di uno specifico paziente nonché di una ben specifica seduta, perciò basta sommarlo agli altri costi, di quella seduta e di quel paziente, e si è risolto il problema); “indiretto” è invece quel costo che si sostiene per causa di più di un oggetto di costo (il consumo della confezione del materiale d’impronta avviene “spalmandosi” su più di un paziente, su più di una seduta, e se lo voglio quindi assegnare, in giuste proporzioni, ai singoli oggetti di costo, cioè a “quel” paziente e a “quella” seduta, devo per forza adottare una metodologia “indiretta”, es. un valore medio). A livello dell’intera attività, se ci si pensa, tutti, ma proprio tutti i costi, diventano “diretti”.

Nella tavola che segue si può vedere il modello degli “oggetti di costo” odontoiatrici che è alla base delle mie consulenze, dei miei software per l’analisi dei costi e dei miei insegnamenti:

CASCATA2019

L’osservazione della “cascata” fa capire:

  • lo stretto collegamento fra i costi dei vari “oggetti”;
  • che se devo conoscere e controllare i costi (e quindi il rendimento!) dell’intera attività, basta sapere come conoscere e controllare quelli di ogni singola operazione/seduta; e ovviamente in modo preciso e dettagliato, se no saran dolori;
  • una volta che ho “ben lavorato” sull’analisi dei costi della singola operazione/seduta, ho in mano, in automatico, i costi di tutti gli altri oggetti e con semplici somme ho in mano il “controllo di gestione” dell’intera attività.

I costi che entrano nel calcolo del costo orario

Riprendo una frase che ho scritto prima: è ora di fare un passo avanti, di “cambiare aria”, superando di botto in tema di analisi dei costi dello studio odontoiatrico le distinzioni “aziendalistiche” appena esaminate. Suggerisco di comportarsi come segue con i propri costi:

  1. non considerare i costi che non c’entrano con la produzione; via quindi spese private o considerate solo a scopo fiscale, via anche quei costi che non sono  proprio indispensabili alla produzione di prestazioni (es. automezzi, corsi professionali i quali sono più costi che riguardano la persona dell’odontoiatra che lo studio); se non si tolgono questi costi, non si potrà sapere qual’è il vero margine delle operazioni cliniche; perché se c’è un valido margine ti paghi le auto, i corsi e pure lo stipendio e le vacanze, altrimenti no; non si dimentichi che tutta questa “cosa” del costo orario alla fine deve servire per sapere se i prezzi che fai e il lavoro che hai sono sufficienti per coprire i costi e dare guadagno. E per sapere dove mettere “chirurgicamente” mano se le cose non dovessero andare come si desidera;
  2. considerare principalmente, per il calcolo del “costo orario” solo quei costi che si possono assegnare alla operazione sulla base della sua durata oraria (cost driver = tempo); es. tutti i costi che maturano perché scorre il tempo: stipendi, affitti, assicurazioni, ammortamenti, leasing, parcelle a tempo del commercialista (non le sue prestazioni speciali es. contenzioso o consulenza particolare) ma anche la manutenzione delle attrezzature perché l’usura e i guasti sono certamente proporzionali al tempo del loro impiego; chiameremo questo gruppo di costi COSTI DI TEMPO;
  3. tutti i costi che si riesce invece ad assegnare o direttamente a singoli pazienti o a ripartire sulla base del numero di operazioni eseguite nel periodo di cui si stanno misurando i costi (cost driver = numero di operazioni), non devono entrare nel conteggio del costo orario; oltre che i vari materiali odontoiatrici, la protesi e le parcelle dei collaboratori, si possono considerare in questo gruppo anche le spese telefoniche (ripartite in media sul numero di sedute di un paziente, perché logica, dell’analisi dei costi, vuole che un paziente “ci fa telefonare” tanto più viene in studio), la cancelleria e comunque tutte le spese che rientrano nel criterio di assegnazione descritto fra le parentesi. E ce ne sono più di quello che potrebbe, a prima vista, apparire. Questi costi li chiameremo CONSUMI.

Il sistema delineato non richiede grossi sforzi, di sicuro meno che stare li a interrogarsi, magari basandosi su teorie sbagliate e confusionarie come tante se ne vedono, su “fissi, variabili, diretti e indiretti”. Segnalo che è disponibile un programma gratuito (“Agenda della sera”) per eseguire l’analisi del costo orario, ma anche quella dei costi e del rendimento per le singole tipologie di prestazioni.

Il “costo orario” sarà dunque, d’ora in poi, da calcolarsi:

COSTI DI TEMPO/TEMPO TOTALE DEDICATO

sarà quindi un costo consuntivo e preciso. Nel prossimo articolo si comincerà ad illustrare come si utilizza il “costo orario” una volta calcolato. E ricordarsi che “le poltrone” nulla c’entrano! Per approfondire e avere insegnamenti, software e materiali, l’ideale è considerare di partecipare ai miei corsi teorici e pratici. A disposizione per approfondimenti anche a 0498962688. Grazie

* dottore commercialista, consulente e formatore per la gestione delle attività in odontoiatria. Tel. 0498962688. Clicca per –> le consulenze. Clicca per–> i corsi.

La “lente” del MEF sull’Odontoiatria. Parte 1^: quanti dentisti e quante imprese?

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[QUANTITA’ DENTISTI]

Di Paolo Bortolini *

Da 13 anni nel sito del MEF (Ministero dell’economia), si pubblica annualmente una sintesi dei dati che ricava dalle dichiarazioni dei redditi cui sono abbinati gli “studi di settore”. Per quanto riguarda l’Odontoiatria, si tratta delle dichiarazioni cui è abbinato lo studio di settore per l’attività 86.23.00. Tali dati sono suddivisi fra tre “forme giuridiche” di esercizio:

  • le “Persone fisiche” (PF), quindi l’insieme dei professionisti inquadrati fiscalmente nel lavoro autonomo, che pagano l’Irpef;
  • le “Società di persone” (SP), forma che comprende al suo interno sia gli studi associati, inquadrati fiscalmente come lavoro autonomo, sia le s.a.s e le s.n.c., “commerciali” e “tra professionisti” inquadrate fiscalmente come imprese, i cui associati e i cui soci pagano l’Irpef “per trasparenza”;
  • infine le società di capitali (SC), in grandissima parte s.r.l., “commerciali” e “tra professionisti”.

Per ognuna di queste “forme giuridiche”, i dati messi a disposizione sono:

  1. il numero delle dichiarazioni presentate;
  2. la media dei compensi e dei ricavi (gli incassi dichiarati dai professionisti e quanto fatturato dalle imprese);
  3. la media del reddito imponibile dei professionisti e delle imprese.

In sostanza, considerata la numerosità del campione, queste tabelle si possono considerare una sorta di “fotografia” annuale del settore che fa riferimento all’attività degli studi odontoiatrici, come inquadrata nel codice di attività 86.23.00 ATECO.

Per interpretare i dati di queste tabelle serve però qualche avvertenza:

  • il numero totale delle dichiarazioni dei redditi annuali non rappresenta l’universo dei soggetti che operano nell’Odontoiatria: alcuni operano con un codice attività diverso da 86.23.00; chi inizia o cessa l’attività nell’anno non deve presentare lo “studio di settore”, perciò è assente dai dati di quello stesso anno; fra le PF ci sono i contribuenti “forfetari” che sono esonerati dalla presentazione dello “studio di settore”;
  • sono altresì esonerati dalla presentazione degli “studi” i contribuenti che dichiarano, come compenso o ricavo, più di €. 5.164.569 (come curiosità, le imprese “odontoiatriche” che nel 2017 hanno superato questa soglia sono state in Italia 25, tutte insieme hanno totalizzato ricavi per €. 319.352.000 e perdite per  €. 7.349.864; per i professionisti e gli studi associati simili dati non sono disponibili).

In questa prima parte del mio contributo alla interpretazione di questi dati MEF, mostro una elaborazione riferita alla numerosità dei soggetti delle tre “forme giuridiche” considerate. Vediamo intanto i numeri assoluti:

NUMEROSITA

Gli stessi identici dati annuali, in forma di grafico “a colonne” (si noti la stabilità della forma SP):

GRAFICONUMEROSITA

Infine, presento i dati sempre in forma tabellare, però ricalcolati in percentuale del totale annuale, cosa a mio avviso più significativa della precedente per quanto riguarda le possibili interpretazioni:

NUMEROSITAPERCENTUALE

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“Dottò, ma quanto mi costa tirare un dente?”. Semplici considerazioni sul prezzo (basso) in Odontoiatria

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[PREZZI DENTISTI]

di Paolo Bortolini *

Negli studi, mi dicono, arrivano pazienti, vecchi o nuovi che siano, i quali, senza tanti preamboli, chiedono come prima cosa “quanto costa” una certa prestazione che, secondo loro, gli necessita. In certi casi, che a sentire i dentisti e i loro assistenti non sono neanche pochi, qualcuno addirittura chiama al telefono, ponendo la stessa domanda. Altri pazienti, aspettano l’esito della visita e il relativo preventivo di onorario, e, una volta conosciutolo, affermano “è troppo caro”, e vi salutano.

Prima di indagare un po’ sui motivi che portano i pazienti a questi comportamenti, si può affermare che, per lo studio, le situazioni descritte possono costituire una fonte di imbarazzo, vuoi perché non si sa bene come comportarsi con i pazienti del “quanto costa”, vuoi perché si ha paura di perdere il paziente del “è troppo caro”.

Quell’imbarazzo, potrebbe anche portare il medico a fissare i suoi onorari o a concedere delle agevolazioni economiche, gli sconti, più sulla base di motivazioni emotive che di valutazioni razionali, rischiando di dare, alla fine, più di quello che riceve e, magari, avendone pure un ringraziamento poco convinto da parte del paziente e un incerto ritorno in termini di nuova clientela, cose per le quali, in effetti, un sacrificio economico, purché non sistematico, potrebbe anche giustificarsi.

Certamente il prezzo è importante, il valore che ognuno da al suo denaro, si sa, è una cosa concreta e assolutamente rispettabile, ma almeno una domanda forse vale la pena di farsela: “il prezzo, nella decisione del paziente di scegliere il suo dentista o di accettarne le proposte, è davvero l’unica cosa che conta?”. Quel paziente che chiama e chiede alla vostra assistente: “Quanto costa tirare un dente”, sempre vi rinnegherà per una differenza di prezzo, magari minima, rispetto ad un collega?

Non occorre scandagliare la scienza aziendale o la psicologia, per dare risposte a questi interrogativi, un semplice ragionamento di senso comune dovrebbe bastare. Impostiamolo.

Sicuramente, nell’ambiente territoriale e sociale in cui ogni studio trova la sua clientela effettiva e potenziale, ci sono delle persone che, quando devono effettuare una qualsivoglia scelta d’acquisto, sono sensibili solamente al prezzo. Questo tipo di persone, ragiona e si comporta per ogni sua decisione di spesa nello stesso modo, si tratti del dentista o della spesa al supermercato, piuttosto che di acquistare un telefonino, un automobile o scegliere la palestra da frequentare: questi consumatori, una volta che hanno un problema, un esigenza o un desiderio da soddisfare, andranno ad interpellare numerosi potenziali fornitori del bene o servizio in questione, e sceglieranno, invariabilmente, quello che fa il prezzo più basso, indipendentemente da ogni altra considerazione, appunto, diversa dal prezzo.

Affermare che la clientela è interessata solamente a spendere poco, significherebbe, a rigor di logica, che le persone sono tutte del tipo appena descritto. Per quanto una simile situazione sia possibile, guardando i comportamenti sociali delle persone attorno a voi, in particolare quelli che si evidenziano attraverso l’acquisto di beni e di servizi, e pensando anche ai vostri propri comportamenti nella veste di acquirenti, ve la sentite di giurare sulla piena validità di un’affermazione del genere? Non vi è mai capitato di fare una scelta di acquisto spendendo qualcosa di più, perché avete magari trovato da quel fornitore più simpatia e cortesia, o perché è stato più disponibile ad ascoltarvi, oppure perché vi è sembrato più organizzato e quindi più affidabile, o per la sua ubicazione, per voi più comoda? A fronte di una particolare personalizzazione del vostro acquisto, o del suo modo di pagamento, avete mai deciso che, quella differenza di prezzo, ne rappresentasse il valore? E infine, come si potrebbe spiegare il fatto che in genere, le persone sono disposte a spendere di più per un oggetto “firmato”, pur avendo a disposizione oggetti similari a minor prezzo?

Si potrebbe arguire che questi comportamenti, in pratica l’essere disposti a spendere di più del necessario, sono appannaggio di classi sociali in qualche modo privilegiate, ma ciò non è assolutamente vero, basti pensare che le cose appena dette sono la materia prima della pubblicità di beni e servizi destinati alla massa, perché la cultura della differenza è oramai da decenni la leva con la quale le aziende si fanno la concorrenza: secondo gli esperti della comunicazione, ogni persona vuole sentirsi unica, vuole la personalizzazione dell’acquisto e del consumo di qualsivoglia bene o servizio. Se si è d’accordo con quest’ultima affermazione, per quale motivo la fruizione di un servizio odontoiatrico da parte del pubblico, che può liberamente scegliere fra diversi dentisti, deve sfuggire a questa logica?

Dunque, pur ammettendo che uno studio possa avere clientela composta unicamente da pazienti sensibili al prezzo, e l’esempio potrebbe essere, forse, la clientela di un ambulatorio USL, osservando la nostra società si può tranquillamente affermare che, nella maggior parte dei casi, la clientela di un professionista è invece composta da varie tipologie di persone, alcune delle quali più sensibili al prezzo, alcune sensibili ad altri fattori che caratterizzano il rapporto con il loro dentista e disposte a spendere di più pur di vederli soddisfatti. Vogliamo indicarli in breve, questi fattori diversi dal prezzo che caratterizzano il servizio offerto e ricevuto? Eccoli:

  • la qualità;
  • il grado di personalizzazione del rapporto;
  • la velocità e la puntualità di erogazione.

Che cosa deve chiedersi il professionista, al termine di questo piccolo ragionamento? Come prima cosa, dovrebbe pensare alla sua clientela, cercando di capire di quali tipologie è composta, a quali fattori è, o potrebbe essere, più sensibile fra quelli indicati.

Successivamente, dovrebbe autovalutare la sua offerta di servizio, cioè capire in quali di questi fattori è più capace, più organizzato, e su quali invece si sente meno forte. In sostanza, si tratta di essere disposti a modulare tipo e quantità di prestazioni cercando di aderire nel modo migliore a quanto ogni paziente effettivamente desidera. Se capite che la persona che avete davanti è sensibile solo al prezzo, dovrete spiegargli che per aderire alla sua richiesta non potrete offrirgli il meglio del vostro repertorio, e che magari dovrà anche essere disposto ad accettare gli appuntamenti negli orari che deciderete voi.

Se invece il paziente vi trasmette il desiderio di una cura con caratteristiche di qualità elevata, per quale motivo non dovrebbe anche essere disposto a pagare una parcella adeguata? Se pretendesse la qualità più alta che gli potete offrire ad un prezzo basso, vi starebbe formulando una richiesta che nemmeno un mago sarebbe in grado di soddisfare, e se non volesse accettare le vostre delucidazioni, sarebbe meglio che si rivolgesse altrove, non trovate?

In conclusione di quest’articolo, che ha voluto offrire alcune semplici considerazioni sulle diverse tipologie di pazienti che si possono avere, mi permetto di ricordare un altrettanto semplice consiglio che tante volte ho sentito pronunciare da un mio caro amico odontoiatra: “dedicando alle visite un tempo sufficiente per riuscire a capire bene dove vuole arrivare il paziente, in modo assolutamente naturale si scopre che ci sono più opportunità di sostenere gli onorari di quanto comunemente si pensi”. Grazie per l’attenzione.

* dottore commercialista, consulente e formatore per la gestione delle attività in odontoiatria. Tel. 0498962688. Clicca per –> le consulenze. Clicca per–> i corsi.

Costo orario dello studio dentistico (2^ puntata): ma quale “orario”?

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[COSTO ORARIO DENTISTI]

Di Paolo Bortolini *

Ecco la seconda puntata della serie sul “costo orario” nello studio dentistico. Per ricevere notifica delle prossime uscite, mettere il “mi iscrivo” su questo Blog o il “mi piace” sulla  nostra pagina Facebook

Riassunto delle puntate precedenti

Nella prima puntata, fatta un po’ di luce sulle idee non proprio precise che ancora circolano nel mondo dei dentisti, ho sostenuto che l’unico valido concetto di “costo orario”, se si vuole stare dentro al perimetro della contabilità analitico-aziendale, è quello che serve per distribuire sulle varie prestazioni (già) eseguite la massa dei costi fissi sostenuti. Concetti diversi da questo, sono da considerarsi, seppure anche di utilità, relativi ad altre esigenze informative, non più parte della contabilità dei costi. Una tabellina mostrava la formula generalizzata del “costo orario”, ottenuto dividendo i costi fissi per il tempo. Soprattutto, si è mostrato che un “costo orario” più alto o più basso nulla incide sul risultato economico finale dello studio. In questa nuova puntata, si dirà di quale “misura del tempo” si deve disporre per conoscere il “costo orario” del dentista!

Si fa presto a dire “orario”. Ma quale orario?

Come anticipato nella prima puntata, il “costo orario” si ottiene con una divisione: costi diviso tempo. Niente di complicato, dunque. Ma il lettore giustamente vorrà anche sapere di quali costi, e per questo dovrà pazientare fino ad una successiva puntata di questa serie, e quale tempo. E di questo dirò qui e ora.

Come prima considerazione, si sappia che nel calcolo del costo “orario”, ma guarda, devono entrare appunto delle ore. Non delle giornate, ne come detto nella prima puntata, oggetti che con il tempo nulla hanno a che fare, vedi le poltrone. E già arrivare a digerire questa idea consente di ritenersi molto ben avviati sulla strada del corretto conteggio del “nostro” parametro per la distribuzione di giuste quote di costi fissi sui pazienti (se saranno poi veramente “fissi”, lo saprà chi continuerà a seguire le prossime puntate). Quali ore dunque? E una volta individuate, come le si deve misurare?

Dai minuti alle ore, il tempo produttivo del dentista

Una mia datatissima (1992) ma sempre valida e attuale diapositiva che utilizzo nei miei corsi, potrà aiutare a capire la realtà del tempo produttivo del dentista, anzi, dei tanti tempi che caratterizzano la sua attività, fra i quali ben bisognerà scegliere quello che dovrà servire per conoscere il “costo orario” con la semplice formula di calcolo di cui già si è detto. Eccola:

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Il tempo che serve per il calcolo del “costo orario” è, ovviamente, un tempo economico, non clinico. Precisamente, va individuato come quel tempo che lo studio dedica ad un singolo paziente trattato conteggiato come il tempo, e per motivi di “scala” e di praticità si tratterà di conteggiare dei minuti, cui gli viene dedicata in esclusiva, anzi, meglio  dire “bloccata”, la risorsa produttiva “scarsa” dello studio: la sala operativa, o sintetizzando, la poltrona. La “scarsità” della risorsa poltrona, dipende dal fatto che finché è “bloccata” per un paziente non la posso utilizzare per un altro, non posso cioè, visto che parliamo di economia, utilizzare quella poltrona per produrre un ricavo.

Il paziente che ha avuto la prestazione, pertanto, in base all’approccio alla giusta distribuzione dei costi fissi fra i clienti dello studio che stiamo seguendo con il concetto di “costo orario” come lo andiamo dipanando, dovrà dunque “pagare il costo della poltrona” in proporzione al tempo in cui l’ha utilizzata per ricevere la prestazione. L’idea di collegare la quota di costi fissi alla durata della seduta, regge pensando al fatto che in uno studio dentistico “generalista” si eseguono prestazioni che hanno tempi anche molto diversi fra loro. Se quindi si utilizzasse, per distribuire i costi fissi fra le varie prestazioni, un parametro diverso, ad esempio il numero complessivo degli appuntamenti “fatti” in un periodo, succederebbe che pazienti che hanno “occupato” la poltrona per due ore si troverebbero a dover “pagare” la stessa quota di costi fissi di quelli che si sono seduti per 10 minuti, magari per un veloce “controllo”. La non-equità dell’approccio appena tratteggiato, seppur presente nella dottrina della cost analysis, è evidente e perciò, in odontoiatria generalista, lo si scarta.

Corollario: se un paziente “salta” l’appuntamento non sarà possibile assegnargli alcuna quota di costi fissi in quanto il tempo dedicatogli è uguale a zero.  La produzione mancata a seguito di “salti” di appuntamento va considerata appunto come tale, cioè inesistente e pertanto non la si può conteggiare in alcun modo valido come un costo. Chi lo fa introduce un elemento illogico in ragionamenti che si devono basare sulla razionalità numerica. Con ciò, un eventuale addebito di un “ristoro” al paziente per il suo poco urbano comportamento, sarà da considerarsi al più un compenso o ricavo eccezionale, ma nulla avrà a che fare con il “costo orario”.

Ma insomma, qualcuno penserà, il Dottor Bortolini si decide o no a rivelarci quale tempo, di quelli della sua diapositiva, dobbiamo usare per conteggiare il tempo dedicato ai pazienti che abbiamo curato in un periodo e dunque a farci scoprire il denominatore della formula del “costo orario”? Come no: è il “tempo della seduta”, quello che rappresenta la durata del “blocco” della poltrona in esclusiva per un solo specifico paziente.

Le ore da mettere a denominatore della formula del “costo orario”, sono date dalla somma del “tempo della seduta” in minuti, convertita in ore, dei pazienti curati da tutti i clinici che operano presso lo studio, e senza considerare il numero di poltrone, nel periodo di cui interessa misurare il “costo orario”.

Tutto sull’uso del “costo orario”, e degli altri costi dello studio dentistico a questo link

* dottore commercialista, consulente e formatore per la gestione delle attività in odontoiatria. Tel. 0498962688. Clicca per –> le consulenze. Clicca per–> i corsi.

Costo orario dello studio dentistico (1^ puntata): chi è costui?

47629457_custom [COSTO ORARIO DEI DENTISTI] Di Paolo Bortolini *

Iniziamo con questo articolo la pubblicazione di alcuni brevi contributi sul dibattuto argomento del “costo orario” nello studio dentistico. Per ricevere notifica delle prossime uscite, mettere il “mi iscrivo” su questo Blog o il “mi piace” sulla pagina Facebook

Prima parte: alto o basso, a fine anno nulla cambia!

Il titolo di questo articolo, chiaro nel suo argomento, richiama poi la celeberrima frase del Don Abbondio manzoniano per il seguente motivo: davvero troppe informazioni di insufficiente qualità sono state divulgate, nel mondo odontoiatrico, sul concetto di “costo orario”.

Questa dezinformatsiya può avere conseguenze. Si pensi infatti al malcapitato dentista che, sulla base di qualcuna delle più fantasiose teorie che “girano” per la rete, decida un prezzo o un investimento sulla base di informazioni distorte (così si definiscono, nella teoria dei costi aziendali, le misure erronee), e in esito a detta decisione ottenga risultati insoddisfacenti. Avrà così, il nostro dentista, oltre al problema del cattivo risultato anche quello di non poter capire perché, dove e come ha sbagliato. Almeno finché non capirà davvero il significato profondo di ciò che, vox populi, viene chiamato “costo orario”.

A parziale discolpa dei divulgatori delle informazioni di cui si dice, almeno quelle che ho potuto finora reperire su varie pubblicazioni a stampa e su Internet, va detto che nessuno di questi è un vero tecnico aziendale: o si tratta di dentisti che, pur volenterosamente e meritoriamente, si sono applicati su questioni che però non fanno parte della loro cultura e formazione. O si tratta di soggetti che una laurea specifica in economia l’hanno vista con il binocolo, e pure del tutto privi di qualsivoglia laurea (ripeto, almeno per gli scritti che ho finora potuto consultare). Insomma, in buona parte esercizi di creatività, magari ben scritti, ma non sostenuti da vera conoscenza della materia e talvolta un po’ fantasiosi. Ad esempio si nota, distorcendo la corretta terminologia e significato, il confondere i costi “indiretti” con i costi fissi e quelli “diretti” con i variabili (ben può essere infatti un costo fisso del tutto “diretto” e un variabile tutto “indiretto” e, se analizzo lo studio nella sua interezza, TUTTI i costi saranno “diretti”!). Oppure l’associare per via aritmetica un costo “orario” a un oggetto fisico e inerte, la poltrona, che nulla ha a che fare con l’immaterialità e il dinamismo del tempo. Più “colpa” di loro se si troverà male avrà, però, quel dentista che si è “bevuto” informazioni senza accertarsi della qualità e della purezza della loro fonte.

Facciamo chiarezza.

La prima cosa che in tutte le analisi dei costi si deve tassativamente fare, è quella di capire perché la si sta facendo. Quale obiettivo, cioè, la stessa analisi deve raggiungere. Occorre quindi chiedersi: a cosa mi deve servire questo “costo orario” che desidero calcolare? Occorre premettere che se uno si accontenta di avere un’idea purchessia di questo “costo orario”, se si soddisfa di quanto ha ottenuto sperimentando da solo o con l’aiuto di quelle approssimative affermazioni di cui si è detto, va benissimo. Ognuno ha il diritto di osservare le sue cose dai punti di vista che preferisce, anche se imprecisi o perfino sbagliati. Ma se si vuole invece pervenire a giudizi oggettivi di un andamento economico, non si può giocare di fantasia.

Nei miei oltre trent’anni di consulenze e applicazioni, di raccolta dati e di statistiche, di programmazione di software, di relazioni a corsi, tutte cose fatte con e per i dentisti, ho concluso che ciò che si chiama comunemente “costo orario”, se si vuole rimanere nell’oggettività dei numeri e dei concetti aziendali, funziona al solo scopo di poter fare una misura attendibile della giusta quantità di costi fissi da assegnare ad ogni singola seduta, rectius al paziente che ha avuto quella seduta (sul “no” al coinvolgimento dei costi variabili nel conteggio c’è oggi, per fortuna, accordo fra i vari autori). Assegnazione che si fa, appunto, in funzione del tempo dedicato alla seduta proporzionato al tempo totale lavorato. Altro non si può fare, e se lo si fa, si deve essere coscienti che si sta dando il nome di “costo orario” a qualcosa che non lo è, che ha altri significati, che serve per altre ipotesi, pur anche sensate e utili, ma si è usciti dal campo della contabilità dei costi (c.d. “analitica” o cost analysis), che è solida disciplina accademica (di solito appresa all’interno dell’insegnamento di “metodologie e determinazioni quantitative di azienda”, esame che, mi si consenta un personale ricordo, al tempo dei miei studi universitari a Ca’Foscari mi fruttò un trenta e lode).

Pensare che il “costo orario” possa quantificare una “perdita” a seguito di un salto appuntamento, snatura il concetto stesso, sono come detto altre libere interpretazioni dei fatti, pur rispettabili ma non è analisi dei costi. Sostenere, come si legge nelle più ballerine delle teorie di cui si è detto, che “se si lavora di più si abbassa il costo orario e meno vi costerà lo studio”, è una bestialità. Infatti, come si può sostenere questo, quando il nostro “costo orario” riguarda i (soli) costi fissi? Se sono “fissi”, appunto, cioè li devi sostenere anche se non lavori, puoi lavorare zero o venti ore al giorno, ma sempre quei costi, proprio perché fissi, dovrai sostenere! Un semplice schema Excel (conto economico per scopo didattico ipotizzando assenza di costi variabili) potrà aiutare:

Schemino 1

Lavorare più o meno ore, può fare variare i ricavi e per questa via, comunque al netto dei costi variabili, il rendimento economico dello studio, ma non certo abbassare o aumentare i costi fissi! Una variazione del “costo orario”, sia verso l’alto che verso il basso, provoca solamente una diversa distribuzione dei costi fissi sulle prestazioni eseguite (rectius sui pazienti trattati), ma non impatta per nulla sui costi totali dello studio.

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DENTISTI: DAI, FACCIAMO UNA SOCIETA’! MA… COME INIZIARE?

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[DENTISTI E SOCIETA’]

Di Paolo Bortolini ∗

L’esercizio associato della Professione Medica è una conosciuta alternativa alla tradizionale solo-practice. Naturalmente, come in quasi tutte le cose che uomini e donne si mettono in testa di fare, oltre alla leopardiana promessa di magnifiche sorti e progressive chi si cimenta nella costituzione e gestione di una società dovrebbe anche mettere in conto la triste eventualità di pentirsene. E in certi casi sarebbe un peccato. Se per costituire la società basta firmare una carta, per avere maggiori probabilità di farla durare e ottenere risultati coerenti con le aspettative iniziali è molto meglio, prima di farlo, compiere una buona analisi: questo sarà l’argomento dell’articolo.

Devo precisare che qui non si parla di quelle situazioni dove i professionisti sono una sorta di “separati in casa”, perché il motivo che li spinge a dar luogo all’associazione professionale è solamente la condivisione di spese, spazi e personale mantenendo però distinte le clientele; qui si tratterà invece di professionisti che desiderano condividere onori e oneri della cura di una clientela unica, che si dedicano cioè al bene del medesimo paziente. Questo articolo può essere utile anche a chi, avendo dei colleghi collaboratori, è interessato a studiare per loro efficaci formule di coinvolgimento nella sua attività senza per questo perderne la piena titolarità, infatti il ragionamento è sovrapponibile in più punti.

Mi sono spesso trovato, come consulente, a dare aiuto nei processi preliminari alla costituzione di una nuova società fra professionisti. Negli anni ho dunque riflettuto a fondo su diversi casi concreti e cercato approcci più generali al problema, che è spesso più complicato di quanto possa sembrare ad un esame di superficie.
Come fare dunque a progettare una funzionalità societaria per ridurre i rischi di guai e godere delle potenzialità che può offrire? Come si imposta un’efficace analisi preliminare alla decisione di costituire di una società?

 

PERCHE’ SI:

Iniziamo il nostro ragionamento domandandoci: che cosa fa una società che un singolo professionista non possa fare? Probabilmente niente, forse una società, purché buona, può solo rendere più facili le cose oppure farle meglio. Esistono comunque delle considerazioni di carattere più generale che possono motivare positivamente di per loro la scelta in esame, vediamone un piccolo e probabilmente parziale elenco derivato dalla mia esperienza di ascolto dei professionisti impegnati in questi ragionamenti, naturalmente i punti che saranno illustrati non sono necessariamente presenti congiuntamente nelle valutazioni che si fanno:

• Uno studio dove operano più professionisti offre di norma al pubblico maggiori opzioni di diagnosi e cura, dunque può assicurare un servizio più esteso, fatto che può anche avere riflessi nella quantità di clientela.

• La massa maggiore, in termini di capitale economico, umano e di clientele, consente di gestire organici più estesi e maggiori superfici e attrezzature: si possono quindi più facilmente perseguire miglioramenti sul piano gestionale e organizzativo teoricamente potendo ridurre tempi e costi medi per unità di servizio prodotto e, oppure, alzandone la qualità media.

• Possono esserci considerazioni di tipo fiscale, che vanno sempre osservate sotto la lente della notevole variabilità di leggi e regole del campo specifico, e spesso la convenienza è solo apparente.

• E’ rilevante anche la motivazione di voler evitare la solitudine professionale, come quella di voler semplicemente stare insieme con colleghi con cui si ha il piacere di condividere l’esperienza professionale.

• La ripartizione di compiti e responsabilità fra soci consentirebbe di ridurre alcune fonti di ansia collegate alla gestione, riducendo il peso psicologico della presa delle varie decisioni legate allo svolgersi della professione.

• L’organizzazione di lavoro contemporaneo di più operatori sotto lo stesso tetto consente aumenti della quantità di servizio prodotta a parità di tempo di utilizzo della struttura.

• Se si vuole avere più tempo per se stessi o per altre attività, però mantenendo un rapporto con il lavoro e la propria clientela, trovare validi partner è forse la strada obbligata. Come anche se si desidera esercitare la professione in più studi. Pensiamo anche ai casi di assenza forzata dallo studio dove un collega, mantenendo attivo il servizio, assicura risorse economiche che in certi momenti sono più preziose del solito.

L’importanza relativa di ogni punto, fra quelli presenti nel caso specifico in valutazione, va ben soppesata perché la definenda creazione contrattuale ne deve rappresentare opportunamente e in modo equilibrato la sostanza.

 

PERCHE’ NO

Insomma tutto bene? Ci saranno anche dei motivi di dubbio rispetto all’idea di intraprendere una professione in forma associata? Ci sono infatti anche delle forze che vanno in senso opposto e vanno tenute presenti:

• la limitazione, praticamente inevitabile, della propria autonomia decisionale (che comprende anche quella di essere liberi di sbagliare qualcosa) che per chi tiene molto al suo individualismo può essere veramente pesante.

• La facoltà di scelta del curante che caratterizza (ancora?) il rapporto medico-paziente, aspetto che personalizza fortemente il rapporto e che potrebbe creare una crisi, di natura fiduciaria e comunicativa, qualora il paziente manifestasse forme di disagio essendo curato da un altro professionista.

• La probabile particolare rigidità economica di studi inevitabilmente maggiorati sul lato delle spese, cosa che in tempi come gli attuali può essere molto penalizzante se i flussi di lavoro fossero erratici.

• Le persone nel tempo cambiano, potrebbe sussistere un rischio legato a possibili mutamenti in negativo delle caratteristiche personali e dei comportamenti dei propri soci.

Il giudizio da sviluppare sui potenziali punti a sfavore presenti, di cui pure la creazione contrattuale deve risentire, si compie valutando la realistica probabilità del loro sussistere e le possibili contromosse.

Per quanto appena esposto mi sentirei di affermare che non ci sono specifici perché o momenti precisi nei quali un professionista valuta la società come una possibile scelta. In base alla mia esperienza il mix di motivazioni a favore o contro il progetto di unirsi a uno o più colleghi può essere il più vario, trattandosi sempre di esigenze e progetti che maturano nella sfera individuale e in tempi strettamente legati alla propria vicenda professionale. Per questo, secondo me, non esiste l’idea di una società tipo valida per più situazioni.

Dunque allettanti promesse ma anche preoccupanti incognite, unite a una sempre complessa elaborazione di regole, norme, documenti. Che fare? Esiste nella fase preliminare alla costituzione della società, un approccio razionale che possa aiutare i futuri soci a limitare i rischi e ad esaltare i loro punti di forza? Propongo al lettore la valutazione di un breve elenco di aspetti che, a mio avviso, andrebbero esplorati a fondo. Segue un ulteriore elenco di suggerimenti ispirati alla pratica, che possono servire per agevolare l’esecuzione dell’esplorazione menzionata.

 

COSA SI DEVE SAPERE

Distinguerei due classi di informazioni, la prima riguarda le persone e, se non posso affermare essere la più importante, non va assolutamente trascurata o peggio omessa a favore della seconda, che riguardando gli aspetti oggettivamente misurabili della costruenda relazione societaria parrebbe a prima vista sufficiente per la creazione e valutazione delle reciproche convenienze contrattuali.
Con ogni probabilità, nella prima classe ci sono gli aspetti responsabili del buon andamento delle cose e della stabilità nel tempo della compagine, poiché sono, successivamente alla stipulazione del contratto, meno se non per nulla modificabili rispetto a quelli della classe oggettiva, più facilmente rivedibili anche a cose fatte e firmate.

Per quanto in particolare riguarda la seconda classe di informazioni, va notato che si tratta di quelle misurazioni, più facilmente stime che dati definiti, che sostengono le negoziazioni relative al peso economico e patrimoniale di ogni socio e al rendimento monetario associato ai contributi che egli darà in termini di lavoro diretto e di avviamento.

1^ classe di informazioni: elementi per prevedere la qualità dei rapporti intersocietari:

• Grado di concordanza su valori di fondo che riguardano i rapporti umani, sociali e professionali.

• Grado di compatibilità degli obiettivi personali e professionali a breve e a lungo termine, dichiarati e non dichiarati.

• Equilibrio psicologico e affettivo, con particolare riferimento al senso di realtà e a quello di responsabilità verso gli altri.

• Stato di salute

• Rispettive età e situazioni familiari.

• Rispettive situazioni patrimoniali.

• Rispettive abitudini e attitudini personali e professionali.

 

2^ classe di informazioni: elementi per negoziare i rapporti economici e patrimoniali:

• Capitale apportato (attrezzature; arredi; superfici; fondi; garanzie).

• Personale ausiliario e collaborativo che i soci porteranno con loro.

• Tempo che sarà dedicato all’attività societaria.

• Possesso di particolari competenze operative, relazionali o manageriali.

• Apporto di propria clientela.

Quando le informazioni raccolte saranno ritenute esaurienti e convincenti, si potrà operarne la sintesi e stilare le norme fondamentali che regoleranno i rapporti nella società indirizzandone la concreta gestione, procedendo alla stesura del contratto vero e proprio la cui rifinitura, se io stesso fossi parte interessata, affiderei a professionisti specializzati.

 

COME FARE A SAPERE? UN QUASI DECALOGO

Propongo un piccolo elenco di suggerimenti che possono facilitare la raccolta e l’analisi delle informazioni. L’elencazione in parola è costruita sulla frequenza del presentarsi di alcuni argomenti riscontrata nella mia esperienza di assistenza a tali progetti e riecheggia i punti menzionati negli elenchi precedenti. Le suggestioni a seguire si intendono rivolte ai protagonisti della decisione sia nella loro individualità sia nei loro momenti di confronto collettivo.

1°. Domandate a voi stessi e agli altri all’inizio, durante e alla fine del’analisi, se si vuole veramente dare luogo a una società, perché un conto sono idee, intenzioni e scambi di cortesie, altro è compiere un passo dalle notevoli conseguenze sui piani professionale, personale, economico e giuridico.

2°. Mettete a confronto elementi oggettivi delle rispettive abituali gestioni quali cartelle di visita e di terapia, tariffari, procedure e modi della gestione dei pazienti e dei fornitori. Domandatevi poi quali parti fra quelle analizzate rivelano uniformità di pensiero e di comportamento e quali divergenze.

3°. Simulate un’ipotetica agenda appuntamenti della società, considerando anche le previste assenze per vacanza e aggiornamento, ripartendo la propria presenza specificando anche il tipo di prestazione che ognuno vuole o deve fare. Osservate la razionalità o i difetti di quanto risulta alla luce delle necessità di assistenza e del previsto flusso di pazienti.

4°. Interrogatevi sulle necessità strutturali della società, tenuto conto delle informazioni emerse nel corso della simulazione del terzo suggerimento. Le superfici e le attrezzature necessarie, il personale di assistenza, lo strumentario: è tutto già presente, in esubero o occorre acquisire nuove risorse?

5°. Domandatevi come dovrebbe procedere, se del caso, l’integrazione fra il personale di assistenza ed altri professionisti presenti negli studi dei potenziali soci. Eventualmente queste persone potrebbero essere sentite preventivamente onde esplorare direttamente questo aspetto.

6°. Provate a scrivere insieme ai futuri soci una o più possibili “lettere alle clientele” nella quale provate a presentare la novità e a comunicare le necessarie informazioni su eventuali cambiamenti nel servizio. Così facendo individuerete le conseguenze del vostro progetto, le eventuali resistenze e gli sperati miglioramenti.

7°. Costruite con carta e penna un conto economico di previsione, che tenga conto di tutte le informazioni che avete fatto emergere nei precedenti punti. Quali saranno le necessità di incasso per soddisfare gli obiettivi dei futuri soci? Le attuali clientele consentono ragionevolmente di ritenere questo volume monetario a portata di mano?

8°. Provate a fare, sempre con carta e penna, dei calcoli che possano servire per stabilire un buon automatismo contabile per quanto riguarda le percentuali di ripartizione di spese e onorari. Questa esperienza vi servirà poi per valutare meglio le proposte che vi saranno fatte dai vostri consulenti.

9°. Ipotizzate alcune situazioni che, secondo voi, potrebbero portare all’immediato scioglimento della società e, più blandamente, a situazioni di crisi. Ipotizzare subito possibili modalità del divorzio e di gestione delle crisi.

 

LE ULTIME RACCOMANDAZIONI PIU’ UNA

E’ doveroso da parte mia far notare che la possibilità di espletare esaurientemente ogni utile passaggio fra quelli che sono stati indicati, dipende in primo luogo dalla quantità di tempo che si decide di dedicare ai vari procedimenti. Talvolta purtroppo, come mi è capitato di osservare in alcuni e nemmeno rari casi concreti, ci si risolve ad affrontare tutto nei ritagli di tempo lasciati dalla propria attività, magari andando subito, cioè quasi sempre troppo presto, da un commercialista o un avvocato sperando che questi specialisti, tirando magicamente fuori un contratto bell’e pronto dal loro cassetto sistemino tutto, magari con pochi ed economici, ma soprattutto veloci, adattamenti. Questo approccio alla questione è senza dubbio sconsigliabile.

Se si vuole arrivare in porto e poi insieme navigare evitando secche o, peggio, scogli e relitti sommersi, ciò che conta è dedicare al progetto il tempo che serve, senza pensare che ci siano delle scorciatoie. Più le conseguenze delle scelte in valutazione fossero impegnative o di non semplice reversibilità, tanto più tempo si dovrà dedicare alla bisogna.

Il tempo da solo, pur in quantità sufficiente o addirittura abbondante, non è ancora condizione sufficiente al successo dell’analisi preliminare delineata. Serve infatti anche una buona qualità della comunicazione con i potenziali partner di cui si dispone. Il modello di comunicazione cui fare riferimento non dovrebbe però essere scelto fra quelli intuitivi e molto diffusi di tipo amicale o familiare, ma rifarsi ai migliori metodi di conduzione dei rapporti fra persone in ambito lavorativo in quanto scopo del processo è di far emergere fatti, opinioni e obiettivi in modo completo e ordinato, al netto per quanto possibile degli effetti distorsivi di atteggiamenti pregiudiziali o dominati da aspetti emotivi non sufficientemente sotto controllo.

Non è difficile concludere che difficoltà, rompi-capo e le eventuali “sorprese” a cose fatte e avviate, possono dipendere proprio da una fase preparatoria condotta frettolosamente o senza la necessaria apertura reciproca o senza aver esplorato tutti gli aspetti che emergono, con le loro luci e ombre, dal progetto in valutazione.

Per affrontare meglio tutte queste questioni, ho visto molti potenziali soci giovarsi dell’aiuto di consulenti, utilizzati sia come agevolatori del dialogo, sia da mediatori che da suggeritori; possono servire anche strumenti più tecnici quali dei questionari o la stesura di check-list che, basandosi su elenchi di elementi da analizzare simili a quelli qui presentati, servano ad evidenziare uniformità e divergenze in modo veloce e soprattutto neutro, consentendo di non dimenticare aspetti importanti. Buon lavoro!

* dottore commercialista, consulente e formatore per la gestione delle attività in odontoiatria. Tel. 0498962688. Clicca per –> le consulenze. Clicca per–> i corsi.