Dentisti e fattura elettronica: confermato, niente obbligo per il 2021! (e per il 2022)

Come si poteva ben desumere dalle importanti modifiche portate dal decreto del Ministro dell’economia e delle finanze del 19 ottobre 2020, ampiamente estensivo delle modalità di invio dei dati al Sistema tessera sanitaria (STS) da parte degli iscritti all’Ordine dei medici e degli odontoiatri, la bozza della legge di bilancio per il 2021 conferma ora che l’invio dei dati a STS sarà ancora sostitutiva del generalizzato obbligo della fatturazione elettronica fra privati previsto dal comma 3 dell’art. 1 del decreto legislativo 5 agosto 2015 nr. 127 (istitutivo dell’obbligo di fatturazione elettronica fra soggetti residenti o stabiliti nel territorio dello Stato).

Infatti, nella bozza della legge di bilancio 2021 che circola da ieri si può leggere, al Titolo IV rubricato “Ulteriori disposizioni in materia di entrate”, quella dell’ art. 182, dedicato alle “Semplificazioni fiscali”, e in particolare il comma 4 che così dispone: “All’articolo 10-bis del decreto-legge 23 ottobre 2018, n. 119 convertito, con modificazioni, dalla legge 17 dicembre 2018, n. 136, e successive modificazioni, le parole “Per i periodi d’imposta 2019 e 2020″ sono sostituite dalle seguenti “Per i periodi d’imposta 2019, 2020 e 2021”. Si tratta dunque di una proroga, non di un’entrata a regime, del divieto previsto dall’articolo ora modificato di emettere fatture elettroniche con riferimento a quelle i cui dati sono da inviare al STS, cioè quelle emesse verso i pazienti persone fisiche, rivolto ai soggetti tenuti all’invio dei dati a STS.

Nella relazione illustrativa alla legge di bilancio 2021, questa proroga è motivata dalla persistente mancanza dell’individuazione di specifiche modalità di fatturazione elettronica per i soggetti che effettuano prestazioni sanitarie nei confronti di persone fisiche, cosa come noto resa ardua da questioni attinenti al trattamento dei dati personali dei pazienti.

Non poteva essere diversamente, viste le notevolissime modifiche apportate all’invio dei dati a STS: sennò, perché si sarebbe fatto tutto quel lavoro?

Ora, anche se in bozza, la sopravvivenza della fattura analogica e cartacea, con la sua fedele compagna marca da bollo, è assicurata anche per il 2021.

Questa novità, e molto altro, al prossimo corso online sulla fatturazione in odontoiatria. Vi aspettiamo!

Fatture analogiche ed elettroniche: tutto sul Bollo

[BOLLO FATTURE DENTISTI]

Di Paolo Bortolini *

[Di tutto quanto riguarda la questione qui trattata, puoi trovare formazione e indicazioni operative partecipando al corso intensivo “LA FATTURAZIONE ODONTOIATRICA DALLA A ALLA Z”.]

La corretta modalità di assolvimento dell’imposta di bollo sulle fatture sanitarie e la richiesta al cliente del suo eventuale recupero, sono argomenti semplici solo in apparenza e in alcuni studi dentistici anche forieri di dubbi applicativi.  Quanto scriverò vale anche in caso di fatturazione elettronica: nulla cambia infatti dal punto di vista normativo. I dubbi possono dipendere anche da notizie prese da Internet, fra le quali si trovano diffuse e ripetute inesattezze e perfino leggende metropolitane, vedi questo mio articolo: “L’ID della marca”. Ricordo che l’imposta di bollo sulle fatture, oggi pari a due euro, è dovuta quando il loro importo supera i 77,47 €..

Le principali, fra le inesattezze internettiane, riguardano: il “chi deve pagare la marca” (rectius chi è il debitore dell’imposta nei confronti dell’Erario), e come la si deve evidenziare in fattura ai fini dell’eventuale suo addebito al cliente. Per la prima, s’incapperà in varie ricorrenze con le stesse identiche parole, dunque dei “copia-e-incolla”, ma a firma di diversi “autori” (vattelapesca chi le ha scritte) che, in sintesi, sostengono: “il pagamento della marca è a carico del debitore, come si ricava dall’art. 1199 del Codice civile. Per la seconda, che come si dirà è strettamente collegata alla preventiva individuazione del debitore d’imposta, si troveranno fraseologie del genere: “se il bollo è posto a carico del cliente, l’importo della marca va indicato in fattura tra le operazioni escluse dall’IVA art. 15 D.P.R. n. 633/1972.”.

Le due proposizioni sono sbagliate, e fiscalmente rischiose in certi casi. Vediamo perché.

1. La fattura non è una “quietanza”

L’articolo 1199 del Codice civile nulla c’entra con le fatture, esso infatti recita: “Diritto del debitore alla quietanza [1]. Il creditore che riceve il pagamento deve, a richiesta e a spese del debitore, rilasciare quietanza e farne annotazione sul titolo, se questo non è restituito al debitore. [2]….”.

La “quietanza” di cui tratta il Codice civile è un apposito atto formato dal creditore che certifica l’avvenuto adempimento di un’obbligazione, di solito pecuniaria, da parte del debitore o di un terzo. Tale atto è formato “a richiesta” del debitore che, per capirsi, sarebbe il cliente del dentista o della società. Ci si trova insomma davanti a vicende di rapporti bilaterali, fra le due parti di un qualche contratto. A patti di natura privatistica. La fattura è invece emessa per un obbligo di legge che ricade esclusivamente su chi effettua l’operazione, e va perciò emessa “spontaneamente” e non “su richiesta”. E la si può per di più emettere anche in assenza di preventivo pagamento. La fattura perciò nulla ha a che fare con la “quietanza” richiamata dall’art. 1199. Inoltre, se nel Decreto sul bollo fatture e quietanze sono trattate distintamente all’interno dello stesso articolo, come si dirà, un motivo ci sarà pure!

2. A chi spetta pagare la marca da bollo?

Detto dell’irrilevanza dell’art. 1199 C.c., vanno ora cassati i dubbi sul fatto che il soggetto passivo di diritto dell’imposta, cioè colui che in base alla legge la deve assolvere, è solo chi emette la fattura. Mai chi la riceve. Questa granitica certezza deriva dalla lettura in combinato di tre articoli del DPR 642 del 1972 (quello che disciplina l’imposta di bollo):

  • l’art. 2 comma 1, che fissa il verificarsi del presupposto dell’imposta “fin dall’origine” della formazione di documenti, cioè sulla fonte da cui il documento promana;
  • l’art. 13 della parte A della tariffa, che include le fatture nei documenti soggetti all’imposta “fin dall’origine” (e nel quale si opera anche la distinzione fra fattura e quietanza cui si è accennato);
  • l’art. 23 che vieta ogni patto contrario alle disposizioni del decreto stesso, ad esempio quello che stabilisse che il debitore dell’imposta non è chi forma il documento, ma chi lo riceve.

Anche sul piano della prassi interpretativa dell’Agenzia delle entrate in riferimento alle fatture sanitarie, è stato chiaramente indicato che debitore dell’imposta è chi forma il documento (risoluzioni 199 del 1995 e 444 del 2008). [AGGIORNAMENTO DEL 26/8/2020 (1° Era Covid): nella Risposta ad interpello ordinario nr. 268/2020, l’Agenzia delle entrate scrive, all’ultimo periodo (sottolineatura dell’autore): “…l’imposta di bollo è dovuta ex lege da tutti i clienti della Società quando l’importo della fattura supera euro 77,47…”; dal momento che le norme sul bollo non sono cambiate, tale nuova interpretazione, del tutto in contrasto con le precedenti sopra citate, è da considerarsi erronea per quanto illustrato nel presente articolo.]

Perciò, ogni ipotesi di assolvimento dell’imposta con modalità diversa da quella legale – debitore dell’imposta nei confronti dell’Erario è chi emette la fattura – non va presa in alcuna considerazione.

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3. Come far pagare la marca al cliente?

La legge non offre dunque alcuna possibilità per “costringere” il cliente a sostenere la spesa per la marca. Giuridicamente, si dice che la legge non prevede la rivalsa, nemmeno in via facoltativa. Il normale comportamento da tenere è perciò il seguente: chi forma il documento assolve l’imposta apponendo la marca da lui prepagata senza inserire alcuna indicazione in fattura e nulla chiedendo a chi riceve il documento (in fattura elettronica barrando un flag al momento dell’emissione e versando in un secondo tempo, per via telematica, l’importo).

Se si vuole recuperare la spesa del bollo, a parte soluzioni extra-contabili che però non permettono a chi riceve la fattura di portare la spesa del bollo in detrazione, occorre in primis il consenso del cliente su base non legale ma di gentlemen agreement, ed evidenziare la cosa in fattura. Si parla allora di “traslazione” (ma solo economica, non dell’obbligo giuridico di assolvere l’imposta) del peso dell’imposta: il soggetto passivo di diritto (chi deve legalmente assolvere l’imposta nei confronti dell’Erario) rimane chi forma il documento, ma il soggetto passivo di fatto (chi ne sostiene effettivamente l’onere), diventa chi lo riceve. Si vedrà poi che è questo il motivo per cui non è corretta l’indicazione in fattura dell’importo della marca come “escluso dall’Iva art. 15 D.P.R. n. 633/1972”.

Nel corpo della fattura, insieme alle prestazioni fatturate, si aggiunge una voce tipo “recupero spesa imposta di bollo”, facoltativamente indicandone l’importo, e questa aggiunta avrà la natura di un puro e semplice “aumento di prezzo”, di una integrazione del corrispettivo richiesto per l’opera prestata. Il corrispettivo totale fatturato comprenderà dunque anche i due euro del bollo. In fattura elettronica, per procedere all’aggiunta della voce si dovrà aggiungere una apposita “riga di dettaglio”.

4. Perché non va fatturata la marca da bollo come “Esclusa art. 15 DPR 633”?

Venendo al secondo punto della mia “contestazione”, l’articolo 15 del DPR 633, quello sull’Iva, a nulla rileva in quanto la non imponibilità ai fini dell’Iva dei due euro (perché questo è il punto) non può dipendere dalle previsioni di quella norma. Indicarlo in fattura non solo non è corretto, ma può essere anche fiscalmente rischioso, come si dirà.

L’applicazione dell’articolo 15 consente di escludere dalla base imponibile dell’Iva (ma anche da quella delle imposte sul reddito), i rimborsi di spese sostenute in nome e per conto del cliente. Perciò, si potrebbe pensare, siccome alla fine si chiedono i due euro al cliente, altro non si è fatto, acquistando prima e apponendo la marca sulla fattura poi, che anticipare una spesa in attesa del suo rimborso da parte di colui nel cui interesse è stata sostenuta. Fattispecie che se sul piano meramente fattuale si potrebbe anche considerare realizzata, per quanto riguarda l’applicazione della norma tributaria non si può accettare.

Infatti, l’anticipazione di somme “in nome e per conto” del cliente prevista nell’articolo 15, si realizzerebbe solo se la spesa della marca maturasse fin dall’origine nella “sfera giuridica” del cliente in quanto debitore legale dell’imposta. Cosa che, stante l’intangibilità della soggettività passiva di diritto all’imposta, di cui si è detto al punto 2, non può mai verificarsi.

5. Qual è il giusto “articolo Iva” per fatturare l’importo della marca?

Non potendo applicare l’art. 15, come spiegato, l’importo della marca indicato in fattura, in quanto operazione diversa dall’effettuazione di prestazioni sanitarie rivolte alla persona che, come è noto, sono esenti dall’Iva, sarebbe imponibile ai fini di questa ultima imposta. Insomma, su quei due euro si potrebbe perfino doverci aggiungere e versare l’Iva!

Per fortuna non è così. Si può infatti invocare la natura “accessoria” alla prestazione principale (medica) dell’aggiunta in fattura della spesa per la marca che si intende recuperare. L’art. 12 del DPR 633, riconosciuta detta accessorietà a quella spesa, dispone che il suo trattamento ai fini dell’Iva sarà il medesimo di quello dell’operazione principale, dunque l’esenzione ex nr. 18) del comma 1 dell’art. 10 del decreto Iva.

Ed è la stessa Agenzia delle entrate che, in via ufficiale, riconosce la natura accessoria dell’aggiunta in fattura della spesa per la marca. Infatti, ben argomenta la già citata risoluzione 444 del 2008 (sottolineature mie): “La stessa conclusione vale nel caso in cui l’imposta di bollo sia stata esplicitamente traslata sul cliente da parte del professionista ed evidenziata a parte nella fattura o ricevuta; come precisato dalla scrivente con la risoluzione 14 luglio 1995 n. 199/E, nulla vieta, infatti, che l’importo del tributo dovuto dal professionista in relazione al documento rilasciato al cliente sia a quest’ultimo addebitato in aggiunta al compenso professionale. Anche in tale ipotesi, l’imposta, separatamente addebitata nella fattura o ricevuta emessa, può essere considerata un costo accessorio alla prestazione professionale…”.

L’articolo Iva corretto con cui fatturare il “recupero” della marca come indicato, sarà il “normale” (per le prestazioni sanitarie) nr. 10 e non dunque il nr. 15.

6. Tre implicazioni fiscali di quanto esposto

Potenziali contestazioni in caso di controllo

Se si emette fattura indicando l’importo della marca come “escluso articolo 15”, tale importo, oltre che escluso dall’Iva, non rappresenterà un compenso imponibile ai fini reddituali, ma una “partita di giro” con denaro anticipato in nome e per conto del cliente rimborsato in occasione dell’emissione della fattura. Per chi emette la fattura, tali movimenti saranno perciò, giuridicamente, irrilevanti ai fini della tassazione del suo reddito. Mancando l’imponibilità come compenso, simmetricamente viene meno la deducibilità della correlativa spesa, in quanto non sostenuta perché, come indicato in fattura, rimborsata dal cliente. Qualora la spesa per marche così fatturate fosse stata comunque portata in deduzione, la si sarebbe dedotta senza averne diritto e ciò potrebbe essere contestato in caso di controllo fiscale.

Inoltre, dal momento che, per quanto finora detto, non di “partita di giro” si tratta ma di incasso imponibile, l’Amministrazione potrebbe contestare pure la mancata indicazione, fra i compensi imponibili, dei corrispettivi fatturati per le marche. Doppia penalità, dunque. Magari poi si sistemano le cose, spiegando e mostrando all’Agenzia che l’indicazione dell’art. 15 del 633 era stata “messa lì” anche perché nella sua rivista online “Fisco oggi” del 22 novembre 2016 così sosteneva (peraltro in via non certo ufficiale), ma che il commercialista, sapendola lunga, ha comunque messo a tassazione i due euro fatturati: ma allora forse conveniva fare le cose giuste subito.

Pagamento di fatture con bollo e ritenuta d’acconto

Quando si paga una fattura al collega che sostituisce il professionista nell’esecuzione di una prestazione, o che opera in qualità di collaboratore di un ambulatorio, il committente deve trattenere l’importo della ritenuta d’acconto come percentuale (20%) del pagato. Se nel pagamento si comprende anche l’importo della marca aggiunta dal prestatore in fattura, la ritenuta va calcolata anche su questo importo. Esemplificando, se si salda una fattura per 100 €. di prestazione con in più l’aggiunta dei 2 €. per recupero della spesa della marca, il 20% va calcolato su 102 €. e non su 100 €.. Se a saldo di quella fattura si versano al prestatore 82 €. invece che 81,6, si è omesso di versare ritenute per 0,40 €.. Poco si potrebbe pensare, vero, ma sempre di omesso versamento di ritenute si tratta.

Vero è che se chi emette la fattura mette l’importo della marca come “escluso art. 15” o perfino senza alcuna indicazione, indicando nella fattura oltre al corrispettivo per le sue prestazioni anche l’importo della ritenuta d’acconto (cosa non necessaria, che si usa fare come “cortesia” al cliente) però calcolato senza tenere conto dell’importo della marca, vedendosi arrivare in pagamento una somma inferiore di 0,40 €. potrebbe avere da ridire. Mandategli questo articolo.

Dedurre la spesa della marca

Quando chi emette fattura la integra con l’indicazione della spesa della marca, come indicato al punto 3, “battezza” i due euro come compenso imponibile ai fini delle imposte sul reddito. Avendo evidenziato in fattura la motivazione di quell’integrazione, contemporaneamente “battezza” la spesa che ha sostenuto per acquistare la marca come inerente all’attività, perciò e in quanto tale deducibile. La gestione della marca, fatta in questo modo, diventa perciò fiscalmente, finanziariamente ed economicamente neutra. A costo zero per il prestatore, purché ovviamente percepisca dal cliente l’importo della fattura inclusivo dei due euro della marca apposta (e se non lo percepisce, che senso ha mettere l’importo della marca nella fattura?).

Se invece non si procede a “traslare” esplicitamente l’imposta di bollo sul cliente, dunque solo apponendola sul documento ma senza indicare alcunché in merito nel corpo della fattura, come pure indicato sopra al punto 3, la spesa della marca apposta sarà deducibile ai fini del reddito ai sensi dell’art. 54 del TUIR per il dentista, e dell’art. 99 sempre del TUIR per la società. La spesa effettiva per ogni marca saranno dunque i due euro meno il risparmio fiscale.

[Di tutto quanto riguarda la questione qui trattata, puoi trovare formazione e indicazioni operative partecipando al corso online “LA FATTURAZIONE AL PAZIENTE ODONTOIATRICO”.]

Conclusioni

La questione della marca da bollo sulle ricevute sanitarie, pur avendo l’apparenza di un tributo “minore”, è in realtà materia delicata e, vedendo varie pubblicazioni su Internet, è da migliorare la sua esplorazione anche da parte degli “addetti ai lavori”. In questo articolo ho trattato solo alcune fra le principali questioni. Per sapere di più, si consideri di partecipare ai miei corsi o di chiedere consulenza.

* dottore commercialista, consulente e formatore per la gestione delle attività economiche in odontoiatria. Tel. 0498962688. Clicca per –> le consulenze. Clicca per–> i corsi.

Fattura elettronica obbligatoria anche per i dentisti: ADDIO, MARCA DA BOLLO

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L’obbligo di assolvere l’imposta di bollo di €. 2,00 apponendo il contrassegno telematico, meglio noto come “Marca da bollo”, sulle fatture emesse dai dentisti, se di importo superiore a €. 77,47, per vari motivi, raramente è accolto con piacere: fra il dover acquistare periodicamente i contrassegni presso le rivendite, apporli sul documento, chiedere il rimborso dei 2 euro al cliente (o non chiedere, e allora, magari, il “dispiacere” aumenta), contabilizzare correttamente la spesa, rischiare le sanzioni se si sbaglia qualcosa. Insomma, di lavoro da fare, collegato all’adempimento, ce n’è.

C’è ora una novità: dopo anni di “onorato servizio”, la marca da bollo sulle fatture, a partire dal primo gennaio del 2019, quindi dopodomani, se ne va in pensione a godersi il riposo di chi sa di aver fatto il suo dovere. La marca sparisce, ma l’imposta di 2 euro se la fattura, ancorché “elettronica”, é di importo superiore a €. 77,47, resta.

Il motivo di questa “sparizione”, come ormai dovrebbe essere noto, è che anche i dentisti, a partire dalla data sopra indicata, come disposto dal comma 916 dell’art. 1 della Legge 27 dicembre 2017 nr. 205 (“legge di bilancio 2018”), avranno l’obbligo di emettere nei confronti della clientela residente nel territorio dello Stato la “fattura elettronica”. Da tale obbligo, sono peraltro esonerati i contribuenti “ex minimi” o “forfetari”. In estrema sintesi, l’attuale fattura cartacea non sarà più utilizzabile come documento valido a fini fiscali, mentre lo diventerà un documento completamente informatico, cioè generato e conservato come file xml, che una volta inviato ad un apposito servizio dell’Agenzia delle entrate, chiamato SDI (Sistema Di Interscambio, accessibile dai servizi offerti dal sito della stessa Agenzia), e quando da quest’ultimo è accettato e messo a disposizione del cliente su un’apposita area del sito dell’Agenzia a lui riservata, costituirà la vera e propria fattura a termini di legge, che appunto, per come è stata creata e deve essere conservata, è detta “elettronica”. Siccome la fattura elettronica non è, come si sarà capito, cartacea, mancherà la “materia prima” per procedere all’assolvimento dell’imposta di bollo con il tradizionale contrassegno telematico incollato.

Siccome però, come detto, l’imposta di bollo non è abrogata, come si dovrà fare per assolverla nella fattura elettronica? Si farà in due fasi:

1^) nel file xml di cui si è detto, cioè la fattura elettronica vera e propria, si dovrà inserire, quando lo si crea, oltre alla descrizione delle operazioni fatturate e gli altri dati, la dicitura “Imposta di bollo assolta ai sensi del DM 17 giugno 2014” (si tenga in mente questo decreto ministeriale, perché è la disposizione contenuta al comma 1 dell’art. 2 che, come si legge nel successivo paragrafo, risolve l’arcano);

2^) entro 120 giorni dalla “chiusura dell’esercizio n”, quindi di norma dal 31 dicembre anno n, il dentista dovrà effettuare un versamento con F24 telematico per l’importo complessivo dell’imposta di bollo relativamente a tutte le fatture di importo maggiore a €. 77,47 emesse nell’anno n; si dovrà usare il codice tributo 2501, facendo riferimento all’anno n. In sintesi, se prima si andava dal tabaccaio ogni tanto, per comprare le marche, dal 2019 questo non si dovrà più fare, ed entro i primi 4 mesi del 2020 si farà invece un unico versamento, comodamente seduti davanti ad un computer, per l’importo di tutte le “marche” relative alle fatture emesse del 2019 e maggiori di 77,47 euro. Ovviamente, in caso di omesso o ritardato versamento, si potrà ricorrere al “ravvedimento operoso”.

Per inciso, la stessa identica modalità di assolvimento dell’imposta di bollo che sarà da eseguire per la fattura elettronica vera e propria, è utilizzabile anche per le fatture che, naturalmente non oltre il 31 dicembre 2018, saranno emesse in formato elettronico, tipo pdf, e inviate al cliente solo per posta elettronica, a nulla valendo strampalate soluzioni come quella di scrivere sulla fattura il codice ID di un contrassegno telematico apposto sull’esemplare cartaceo della fattura che resta in studio.

Sempre per inciso, la combinazione “fattura elettronica con bollo + F24” eliminerà ogni possibilità di evadere quest’imposta, cosa che ora avviene omettendo l’apposizione del contrassegno sulle fatture cartacee.

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